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MANZONI: I promessi sposi (2° parte)




Antologia - 24^ Lezione
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https://youtu.be/4lw_Zcn74dk
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MANZONI: PROMESSI SPOSI (SECONDA PARTE) – LA CRITICA
 
Ventiquattresima lezione, con Barbara. Continuiamo con Manzoni. L’altra volta avevamo fatto una riflessione sull’andamento della giustizia nel periodo della dominazione spagnola in Italia: avevamo parlato dell’Azzeccagarbugli e di don Rodrigo e del fatto che la legge non fosse certo al servizio dei deboli, ma dei potenti. Avevamo richiamato la circostanza che quell’avvocato al quale Renzo si rivolge e che per un equivoco prima vuole difenderlo, ma poi, quando viene a sapere che è lui il danneggiato da un bravo, lo manda via, andava a banchettare alla tavola di quel don Rodrigo che Renzo avrebbe voluto con la legge combattere, con l’aiuto dell’avvocato stesso.
Aggiungiamo oggi, sempre su questo tema, che sul piano politico sociale Manzoni interviene, nella ricostruzione storica di quel 1628 in cui è ambientato il romanzo, con il ricordo della rivoluzione per il pane, quando Renzo, fuggito come sappiamo in cerca poi di una ospitalità al di là del confine, prima si reca a Milano, dove padre Cristoforo lo ha indirizzato a un convento, però, entrando nella città, trova i segni di questa rivolta. C’è del pane sparso per terra e se ne meraviglia. La prima riflessione che fa il semplice Renzo è che in tempi di carestia sia strano che si butti del pane per terra. Poi si rende conto che qualcosa sta accadendo.
C’era stata tutta la questione che riguardava la riduzione del prezzo del pane imposta ai fornai, che, in periodo di carestia, avevano poco grano con cui fare il loro lavoro, non potevano sostenere questi prezzi e avevano reagito chiudendo la vendita; il popolo protesta e pensa che siano loro e altri come il Vicario di provvisione, quello che ha l’incarico dell’amministrazione dei beni alimentari, i responsabili, anzi è dalla parte di Ferrer, cancelliere di origine spagnola, questo governatore che era venuto a Milano a fare interventi demagogici, come si era detto, senza considerare gli effetti di quello che decideva. E quindi il popolo si schiera dalla parte sbagliata, come sempre o spesso accade, ci vuole dire Manzoni, e protesta contro l’innocente, che è il Vicario di provvisione: stanno sotto la sua casa per portarlo via, addirittura c’è un vecchio con una corda per impiccarlo.  Insomma l’autore parla in termini molto duri contro la violenza popolare, che non condivide.
In questa confusione si ritrova Renzo. E voglio prendere, di Renzo, un momento in cui fa un discorso al popolo. Si trova in piazza, si sente protagonista, e parla, finalmente parla, si sfoga con le sue idee. Intanto Ferrer si era recato lì a difendere il vicario di provvisione, se lo era portato via, liberandolo e blandendo la folla con i suoi motti spagnoli. Sentiamo Renzo…
 
PROMESSI SPOSI, CAPITOLO XIV
E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, "signori miei!" gridò, in tono d'esordio: "devo dire anch'io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell'affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s'è visto chiaro che, a farsi sentire, s'ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po' più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c'è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de' dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n'hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s'abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev'essere la sua parte".
"Pur troppo," disse una voce.
"Lo dicevo io," riprese Renzo: "già le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po' in campagna, un po' in Milano: se è un diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all'inferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei (Renzo usa il linguaggio di chiesa, quello che usano i preti sugli ipocriti o i malviventi), che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo (questa Renzo l’ha capita benissimo: se vai a chiedere giustizia non ti danno retta). Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c'è una lega (dunque Renzo sta dicendo che il re fa le cose giuste, sono questi di mezzo che si comportano male). Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo (sbaglia anche qui Renzo), un signore alla mano; e oggi s'è potuto vedere com'era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia.

 
Infatti Ferrer diceva “Adelante, adelante, Pedro” al suo cocchiere, che lo portava via insieme con il vicario, e poi, rivolto contemporaneamente alla folla e al vicario, “Con juicio!. Sì, pagherà, si es culpable”. Una cosa al popolo per calmarlo e una al vicario per tranquillizzare anche lui. Classico ipocrita, questo Ferrer, come molti politici di casa nostra. Ascoltiamo ancora Renzo…
 
“Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co' miei occhi, una grida con tanto d'arme in cima (il simbolo sulla grida), ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che d'ognuno c'era sotto il suo nome bell'e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co' miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com'era l'intenzione di que' tre signori, tra i quali c'era anche Ferrer, questo signor dottore, che m'aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio (naturalmente il caro vecchione è Ferrer, ricordato con affetto). E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che s'ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s'è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l'arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de' meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a' dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei?"
-Bravo! Sicuro! Ha ragione! E’ vero purtroppo!

 
Renzo ha parlato tanto di cuore che tutti si sono rivolti a lui, lo hanno ascoltato. Perché ho riletto questo discorso di Renzo? Perché fa il capopopolo, si scopre tale, però, se riflettiamo bene, chiede l’intervento del re. Il popolo si ribella per chiedere al sovrano di risolvere i suoi problemi. E su questo si è innestata una serie di giudizi politici, che tu adesso ci ricostruirai, Barbara, sull’opera di Manzoni. Cominciamo a sentire…
 
LUIGI SETTEMBRINI, LEZIONI DI LETTERATURA ITALIANA
In un certo senso il percorso letterario di Manzoni, dalle odi civili alle tragedie al romanzo, si può leggere come una marcia di avvicinamento agli umili, che acquistano uno spazio via via maggiore nella sua opera, fino a diventarne protagonisti.
 
A questo proposito dico subito che, quando nelle “Osservazioni sulla morale cattolica” Manzoni aveva detto che bisognava rivedere la storia dalla prospettiva degli oppressi anziché degli oppressori, riscriverla dalla parte degli sconfitti e non dei vincitori (abbiamo fatto questo discorso con Adelchi), aveva operato poi una concreta realizzazione di questi suoi propositi sia nel “Conte di Carmagnola” che nell’”Adelchi”, dove aveva reso protagonisti gli sconfitti. Però poi, andando avanti, prima di scrivere i “Promessi sposi”, si è reso conto che aveva parlato sempre di grandi, di elementi non del popolo, ma dell’aristocrazia, della società più alta. Quindi aveva deciso di passare al mondo non degli oppressi soltanto, ma degli oppressi che erano anche “umili”. C’è appunto, nella dichiarazione di poetica dell’autore, l’intenzione di rivolgersi agli umili quando decide di scrivere il romanzo…
Data la dimensione eminentemente ideologica che fu ben presto attribuita al romanzo, molte delle discussioni si concentrarono su questo tema: che significato assume nei “Promessi sposi” la presenza del popolo? Quale visione della società ne scaturisce? Generalmente gli intellettuali legati all’anima laica e democratica del risorgimento interpretarono negativamente il messaggio politico del romanzo. Giuseppe Mazzini ne criticò la visione “passiva”, troppo rassegnata davanti agli eventi della storia. Luigi Settembrini lo definì il “libro della reazione”:

 
Scrivere e pubblicare un libro che loda i preti e i frati e consiglia pazienza, sommessione, perdono (…) quando i preti spadroneggiavano, l’Austria incrudeliva nel Lombardo-Veneto e i nostri tirannelli infuriavano a straziarci, significava (…) consigliare la sommessione nella servitù, la negazione della patria e di ogni sentimento civile.
 
La risposta più autorevole a questa linea interpretativa venne da Francesco De Sanctis, che, dall’interno dello stesso schieramento laico e risorgimentale, vide nei “Promessi sposi” “un contenuto religioso e patriottico penetrato visibilmente da un soffio democratico”. De Sanctis è il più moderato nelle sue valutazioni. Ricordiamo che questi giudizi molto negativi di Mazzini e Settembrini sono determinati da questa prospettiva nello stesso tempo religiosa ma anche laica, in funzione anticlericale. Quando in un romanzo trovano invece questo ambiente religioso così supportato da Manzoni, non accettano l’idea, anche se apprezzano personaggi come padre Cristoforo e il cardinale Federigo Borromeo. Quello che emerge dal romanzo, per il giudizio di questi critici, è una sorta di rassegnazione, di passività che viene suggerita da Manzoni.
Nel Novecento il dibattito sulla politicità dei “Promessi sposi” ha coinvolto principalmente gli intellettuali di ispirazione marxista. In particolare Antonio Gramsci ha riproposto il tema del paternalismo manzoniano nei confronti degli “umili”:

 
L’atteggiamento di Manzoni verso i popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana(…) egli trova “magnanimità”, “alti pensieri”, “grandi sentimenti” solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua totalità è bassamente animalesco.
 
Gramsci dice che i grandi pensieri sono solo nei grandi personaggi, mentre quelli del popolo sono trattati come dei semplicioni. Infatti un po’ ha ragione per quello che abbiamo letto di Renzo, che è oggetto dell’ironia dell’autore in questa circostanza come in altre. Ma vediamo cosa dice invece Carlo Salinari…
 
CARLO SALINARI, COMMENTO AI “PROMESSI SPOSI”
La connotazione ideologica più profonda di Manzoni (…) è quella di un intellettuale organico della borghesia lombarda nel periodo della restaurazione, vale a dire della classe sociale più progressiva in quel periodo storico.
 
Il giudizio di Salinari è ben diverso da quello di Gramsci. Se quest’ultimo ha detto che Manzoni maltratta il popolo, Salinari afferma che il suo è il pensiero della borghesia più progressista di quel periodo, cioè Manzoni non poteva andare oltre questi limiti nel suo giudizio sul popolo, perché vigeva l’idea che fosse la borghesia, fossero gli intellettuali, fosse un élite che doveva guidare il popolo. Nessuno credeva ancora, come Marx avrebbe fatto, dalla metà alla fine dell’Ottocento, quando si sviluppano tali temi, che potesse essere il popolo protagonista di un cambiamento, da solo, senza essere indirizzato. Anzi anche nel marxismo c’è l’idea della guida da parte della borghesia, sotto certi aspetti. Andiamo avanti…
Il dibattito è proseguito senza troppo scostarsi dal ritratto ironico tracciato da Cesare Cases:
 
In ogni città italiana c’è una fazione di intellettuali di sinistra che trova il Manzoni “progressista” e un’altra che, pur cavandosi il cappello, lo trova “reazionario” o perlomeno conservatore.
 
Questo è il punto: Manzoni reazionario o progressista? Infatti Cesare Luporini ha scritto un celebre saggio su “Leopardi progressivo”, indicando Manzoni come conservatore e Leopardi come progressivo, cioè progressista. Luporini parte dall’assunto che, essendo Manzoni perfettamente integrato nel processo risorgimentale, ed essendo invece Leopardi colui che se ne è escluso, poiché quello risorgimentale per Luporini è un processo conservatore, che sostanzialmente difende gli interessi della borghesia contro il popolo, Manzoni era conservatore come il fenomeno in cui si integrava e Leopardi, che se ne era dissociato, lo si poteva immaginare, con una forzatura comunque, come uno che aveva capito tutto, cioè che il risorgimento, molto lontano da voler veramente riscattare il popolo, in realtà era nato per cambiare tutto per non cambiare nulla, come avrebbe poi affermato Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”, cioè per assicurare la durata di certi privilegi che già c’erano dai decenni precedenti.
Come vedete, così già si sposta il ragionamento che si stava facendo prima; però il grosso problema è sempre quello: come dobbiamo vedere Manzoni, come un reazionario o come un progressista? Io sarei sulla posizione di Salinari, cioè che Manzoni era un progressista per il suo tempo e non poteva andare oltre certi limiti in quell’epoca. Per esempio Renzo che arringa al popolo difficilmente lo avrebbe potuto vedere come Marx avrebbe visto un proletario che fa la rivoluzione. Però è anche da dire un’altra cosa, che ancora di più dà ragione a Salinari e torto a Gramsci: Renzo è un personaggio del Seicento e se nell’Ottocento potevamo discutere sul fatto che il popolo potesse avere o meno una coscienza politica tale da muoversi autonomamente, sicuramente nel Seicento si chiede sempre l’intervento al re, come abbiamo visto. Renzo reagisce contro le ingiustizie, ma non è che pensi che ci sia un parlamento o il popolo stesso che possa risolvere la questione. Il popolo si ribella, ma chi deve legiferare, chi deve far rispettare le leggi è il re. Siamo nel periodo dell’assolutismo, lo abbiamo spiegato all’inizio di questo secondo anno con Grozio e Hobbes, in cui si rinuncia alle proprie libertà per affidare al re la garanza della felicità e della libertà. E quindi Renzo fa quello che può fare un popolano del Seicento, non di più. Dunque Manzoni da un punto di vista storico è preciso. Vediamo qualche altro intervento…
Negli ultimi decenni il dibattito si è spostato su un altro terreno, mettendo in evidenza, più che la proposta positiva dei “Promessi sposi”, il loro carattere critico, la demistificazione di ogni tentativo di ricondurre il funzionamento della società e del mondo ai programmi e agli schemi umani. In una lucida analisi dei rapporti di forza su cui si basa la trama del romanzo, Italo Calvino ha sostenuto che nel capolavoro manzoniano si intrecciano un “romanzo moderato” e un “romanzo rivoluzionario”, ma che entrambi si rivelano alla fine impossibili da realizzare:
 
ITALO CALVINO, PERCHE’ LEGGERE I CLASSICI
E’ solo passando dall’orizzonte degli individui a quello universale che può risolversi la vicenda dei due fidanzati di Lecco. E quando ci accorgiamo che la parte della Provvidenza è sostenuta dalla peste comprendiamo che il discorso dell’ideologia politica spicciola è saltato in aria da un pezzo. Le vere forze in gioco del romanzo si rivelano essere cataclismi naturali e storici di lenta incubazione e conflagrazione improvvisa, che sconvolgono il piccolo gioco dei rapporti di potere.
 
Tutto è un sistema di forze che sono in rapporto e che prevalgono una sull’altra. Naturalmente si affermano sui deboli. L’unico sistema per rompere questo meccanismo è il cataclisma, in questo caso la peste, che è nel disegno provvidenziale, che sconvolge tutto e rimette le cose a posto. Ma senza questo tornerebbero i vecchi rapporti di forza, come dice giustamente Italo Calvino. La peste nel romanzo, come già dicemmo, travolge gli ingiusti, sia i bravi, il Griso e altri che don Rodrigo, e salva invece i giusti come Lucia.
Chiudiamo. Pensiamo di avere dato un’indicazione generale complessiva su Manzoni, senza toccare minimamente il problema religioso nel romanzo, che è sempre il rapporto fra elementi di chiesa di un certo tipo ed elementi di un altro tipo. Infatti si distingue tra un padre Cristoforo eroico, che combatte per la giustizia, un padre provinciale che si mette d’accordo coi potenti e il cardinale Borromeo, il santo, presentato positivamente, però anche come quello che ha organizzato processioni e preghiere collettive che diffondevano il contagio, per non parlare della caccia agli untori. Manzoni in questo è stato molto duro, contro le idee che si potesse con un unguento diffondere questo contagio.
E poi c’è nel romanzo il ragionamento sul tema dell’ignoranza e della pedanteria, che non servono per risolvere problemi che sono scientifici, come quello del contagio: per esempio don Ferrante, per coltivare il suo sogno di una cultura molto approssimativa, arretrata, finisce poi per trascurare e minimizzare il problema  e muore di peste.
Con questo concludiamo, spingendovi ad amare Manzoni più di quanto non lo amiate. Intento di questa lettura, appunto, non volendo soffermarci sulle cose che tradizionalmente vengono ricordate e annoiano, era far rinascere in voi un interesse per questo romanzo che, ripeto, dovremmo togliere dallo studio del biennio, finalmente, per rinviarlo a un esame più approfondito nel penultimo anno di corso. Arrivederci.    
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