Antologia - 19^ Lezione
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https://youtu.be/6WEMbRt6x_U
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MACHIAVELLI: IL PRINCIPE, LA MANDRAGOLA
L’altra volta ci lasciammo con il ragionamento su Cesare Borgia. Il personaggio che incarna la figura ideale di principe per Machiavelli, colui che ha tutte le virtù per esserlo, ma, poiché si è poggiato sulla fortuna nel dare inizio al suo stato nuovo, poi lo ha perduto, alla morte del padre, il papa Alessandro Sesto.
Prendiamo un passo del trattato che parla delle qualità che deve avere un principe, quelle della “golpe” e del “lione”. Machiavelli ci dice che sa bene quali sono le qualità ideali di un principe, però la realtà è ben diversa dalla idealità. Comincia così:
IL PRINCIPE, CAPITOLO XVIII
Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: nondimanco si vede per esperienzia, ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli delli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà.
Sarebbe lodevole che il principe fosse onesto e leale, ma poiché questi tempi chiedono disonestà e slealtà, per questi tempi, dice Machiavelli (ricordiamo: il suo ragionamento è sempre relativo), è bene che sia disonesto e sleale…
Dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché il primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo.
Cioè l’agire con le leggi e l’agire senza le leggi...
Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antiqui scrittori; li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile.
Quindi il fatto che Chirone, un centauro, fosse il maestro dei principi argivi significava che per poter governare in futuro questi giovani allievi dovevano imparare da uno che fosse mezzo uomo e mezzo bestia, perché insegnasse a loro ad essere sia uomo che bestia nell’azione politica…
Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione: perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi.
Cioè se tu sei solo forte e violento puoi essere rovinato dall’astuto, se sei solo astuto puoi essere sottomesso dal forte e allora devi adattarti a tutte le situazioni…
Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere.
Quindi gli uomini, i principi, non devono rispettare i trattati, gli accordi. Ricordiamo che Cesare Borgia infatti attirò gli Orsini a Senigallia e li uccise, dopo avere promesso di fare pace con loro. C’è un altro passo importante dell’opera, il discorso sulla fortuna, nel quale fa lo stesso ragionamento in parallelo: questi sono tempi in cui bisogna comportarsi in una certa maniera, in cui si è soliti dire che la fortuna ha una grande influenza sulle azioni dell’uomo e non c’è modo di salvarsi, non c’è modo di fare diversamente, cioè bisogna quasi affidarsi agli scherzi del destino e non si riuscirebbe, secondo l’opinione comune, corrente, a combattere la sorte. Machiavelli ritiene che essa sia particolarmente negativa in questi tempi, però ciò nonostante, dicemmo l’altra volta, non perde la speranza di potere agire, di potere reagire con la virtù dell’uomo contro la fortuna. E’ il rapporto tra virtù e fortuna. Dice Machiavelli:
IL PRINCIPE, CAPITOLO XXV
E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbano iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte
Quindi molti ritengono che sia inutile affaticarsi perché tanto la sorte è così imperante che non abbiamo modo di resisterle
Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura.
E qui ha ragione Machiavelli: questi erano tempi, il primo Cinquecento, in cui c’erano fallimenti catastrofici di banche, di imprese, c’erano dei rivolgimenti straordinari per cui veramente sembrava all’uomo che tutto fosse affidato alla sorte, tutto fosse in certi momenti anche precario, infatti questa poi sarà la ragione della crisi della società rinascimentale, questa attesa, questa ansia di un futuro che non è più sicuro come lo era alla fine del Quattrocento. Dice Machiavelli ancora:
A che pensando, io qualche volta mi sono inclinato nell’opinione loro.
Cioè sono stato tentato di piegarmi all’opinione di questi rassegnati pessimisti che non vogliono resistere alla sorte…
Nondimanco (ecco il solito Nondimanco di Machiavelli, ciò nonostante) perché il nostro libero arbitrio non sia spento (affinché non sia inutile la nostra capacità di scegliere, di decidere della nostra vita, in cui crede moltissimo Machiavelli), iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi.
E’ su quella metà che dobbiamo lavorare noi uomini, dice Machiavelli…“O presso..” Ora questo “presso” significa “quasi” nel senso di meno della metà o più della metà? Più del cinquanta per cento abbiamo per decidere della nostra sorte con la nostra virtù oppure meno del cinquanta per cento di possibilità? Secondo me, Machiavelli intende di più:
E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s’adirano, allagano e piani, ruinano gli arberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra (cioè la piena creata da un fiume ingrossato dalle grandi piogge) ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro sanza potervi in alcuna parte obstare. (quando c’è questa piena, con queste alluvioni, sembra che non ci sia proprio nulla da fare) E benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso.
E’ vero che quando si scatena l’alluvione non c’è niente da fare, dice Machiavelli, però potevamo fare qualcosa prima…
BARBARA: Gli argini…
Creare gli argini, i sistemi di sicurezza prima che si scatenasse il finimondo. Sono fatti attuali, nella nostra Italietta qualche volta succede che rimaniamo un po’ sorpresi dagli avvenimenti. E’ vero che il nostro è un territorio molto critico per la sua conformazione, però molto spesso facciamo degli errori, non creando provvedimenti prima, per garantirci. E allora, dice Machiavelli, la stessa cosa accade per la sorte…
Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla.
La fortuna, dove trova che non ci sono argini o ripari, là scatena di più la sua violenza, cioè dove trova uomini impreparati si accanisce su di loro; ma anche la sorte, vuole dire Machiavelli, cederà alla virtù dell’uomo che è prudente, saggio e prepara le cose.
E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo
Ecco, attualmente l’Italia, dice Machiavelli, è come una campagna che non ha né argini né ripari e la fortuna si scatena contro la nostra collettività. Allude alle invasioni:
ché s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta.
Quindi, trasferita al campo internazionale, la discussione sugli argini significa che se l’Italia avesse fatto gli argini, cioè si fosse costituita una e forte dal punto di vista economico, avrebbe potuto reggere la concorrenza delle altre nazioni, invece non l’ha fatto e adesso viene invasa. Questo non vale soltanto per la nazione Italia, ma anche per ciascun individuo e anche per l’azione politica del principe: il principe deve continuamente prevedere, prima del tempo, essere preparato, programmarsi, progettare. Ecco, il grande Machiavelli che progetta.
Comunque importante da un punto di vista esistenziale e filosofico questa riflessione che all’uomo, alla virtù dell’uomo, viene riservato più del cinquanta per cento delle possibilità di decidere la sua sorte, un poco di più. Quindi il libero arbitrio dell’uomo trionfa in questo primo Cinquecento, in pieno rinascimento, ed è appunto il senso fondamentale di questa civiltà, l’uomo che è pieno di autostima, capacità di fare. Poi c’è quell’ultimo capoverso a proposito della fortuna, dove dice, purtroppo per voi donne…
la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.
Questo tratto misogino lo fa scendere nella tua considerazione… Lui dice che, come tutte le donne, se viene battuta poi la addomestichiamo. Questo atteggiamento è tipico dei tempi. Lo stesso Shakespeare scriverà “La bisbetica domata”, in cui una donna capricciosa trova quello che la mette sotto e la addomestica. Sono atteggiamenti che cinquecento anni fa si possono anche perdonare.
Ma adesso passiamo a un altro punto interessante: la trasposizione in campo teatrale, da parte di Machiavelli, delle sue tematiche politiche. Siamo alla Mandragola, una commedia nella quale la storia fondamentale è quella di una coppia che non ha figli, il ricco mercante messer Nicia “babbeo”, come si dice a un certo punto, e Donna Lucrezia, la moglie, onestissima moglie che non ha mai tradito suo marito, che però non ha eredi, non si sa se per responsabilità fisiche sue o del coniuge. E dall’altra parte c’è Callimaco, un giovane che ha notato Lucrezia e vuole conquistarla, ma non sa come fare. Ed è aiutato da Ligurio, un servo astuto. Già da questi personaggi che ho presentato chi ha esperienza potrebbe arguire che la commedia di Machiavelli, come in genere la commedia del Cinquecento, deriva le sue caratteristiche, le sue tipologie da quella plautina e, prima ancora, dalla vecchia fabula atellana, in cui pure erano le figure del servo astuto, del vecchio sciocco, del vecchio avaro eccetera. Ligurio è proprio il classico servo astuto delle vecchie maschere, i tipi fissi. Infatti immagina un piano per il suo padrone Callimaco: può conquistare Lucrezia se seguirà il suo stratagemma. Si tratterà di far credere a Messer Nicia che con la mandragola, con una pozione, un infuso creato da questa erba, potrà risolvere il problema della procreazione: basterà che Lucrezia beva questo infuso e potrà avere un figlio; però, affinché si possa appunto completare il piano a favore di Callimaco, bisognerà anche dire a Nicia che, perché questo accada, purtroppo si rischia la vita di chi avrà un rapporto con Lucrezia dopo che avrà bevuto l’infuso. Per evitare che muoia Nicia si consiglierà di fare giacere con Lucrezia un’altra persona. Naturalmente chi sarà questa persona che si sacrificherà con Lucrezia la notte che avrà bevuto la pozione? Uno preso per strada, un barbone, suggerirà Ligurio a Nicia. In realtà, travestito da barbone, si troverà lo stesso Callimaco, che potrà così entrare sotto le coperte di Lucrezia per una notte. Bisogna però convincere Nicia? Viene convinto subito, perché tiene soprattutto al suo futuro economico, vuole avere un erede a cui lasciare le sue sostanze, il suo patrimonio, la sua attività e quindi di fronte a questo fatto dimentica tutto, anche di dover lasciare sua moglie nelle braccia di un altro. La difficoltà nasce nel convincere appunto chi?
BARBARA: Lei.
Lucrezia. Tu sei Lucrezia. Siamo arrivati a questo punto della storia. C’è prima Fra’ Timoteo, che è quello che si incarica di risolvere tutti i problemi, dietro corresponsione di danaro. Parla con se stesso…
LA MANDRAGOLA, ATTO III, SCENA XI
FRA’ TIMOTEO (tra sé): Io non so chi si abbi giuntato l'uno l'altro. Questo tristo di Ligurio ne venne a me con quella prima novella, per tentarmi, acciò, se io li consentivo quella, m'inducessi più facilmente a questa.
In realtà Ligurio lo aveva tentato con un’altra storiella per vedere se era corruttibile. Fra’ Timoteo aveva capito benissimo che gli aveva parlato di un’altra cosa per vedere se lo era…
FRA’ TIMOTEO: Egli è vero che io ci sono suto giuntato; nondimeno, questo giunto è con mio utile. Messer Nicia e Callimaco sono ricchi, e da ciascuno, per diversi rispetti, sono per trarre assai.
Fra’ Timoteo ha fatto bene i suoi calcoli. Gli hanno promesso danaro, Nicia e Callimaco, perché lui si decida a convincere Lucrezia, come suo confessore...
FRA’ TIMOTEO: La cosa convien stia secreta, perché l'importa così a loro, a dirla, come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento. È ben vero che io dubito non ci avere dificultà, perché madonna Lucrezia è savia e buona: ma io la giugnerò in sulla bontà.
Ecco, io la prenderò proprio per bontà, dice Fra’ Timoteo, la convincerò proprio su quella base di onestà che ha lei e così non potrà negarsi…
FRA’ TIMOTEO: E tutte le donne hanno alla fine poco cervello (un’altra volta) e come ne è una sappi dire dua parole, e' se ne predica, perché in terra di ciechi chi vi ha un occhio è signore (vuol dire che basta poco perché le donne parlino) Ed eccola con la madre, la quale è bene una bestia e sarammi uno grande aiuto a condurla alla mia voglia.
Una bestia nel senso che è una che si può addomesticare facilmente, mentre Lucrezia no. Si aiuterà attraverso la madre, Sostrata. Ora io diventerò lei che parla con te, Lucrezia…
SOSTRATA: Io credo che tu creda, figliuola mia, che io stimi l'onore ed el bene tuo quanto persona del mondo, e che io non ti consiglierei di cosa che non stessi bene. Io ti ho detto e ridicoti, che se fra' Timoteo ti dice che non ti sia carico di conscienzia, che tu lo faccia sanza pensarvi.
LUCREZIA: Io ho sempremai dubitato che la voglia, che messer Nicia ha d'avere figliuoli, non ci facci fare qualche errore; e per questo, sempre che lui mi ha parlato di alcuna cosa, io ne sono stata in gelosia e sospesa, massime poi che m'intervenne quello che vi sapete, per andare a' Servi. Ma di tutte le cose, che si son tentate, questa mi pare la più strana, di avere a sottomettere el corpo mio a questo vituperio, ad esser cagione che uno uomo muoia per vituperarmi: perché io non crederrei, se io fussi sola rimasa nel mondo e da me avessi a risurgere l'umana natura, che mi fussi simile partito concesso.
SOSTRATA: Io non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi, da chi ti vuole bene.
LUCREZIA; Io sudo per la passione.
Lucrezia suda… passiamo alla scena successiva. Qui sarò sia il frate che Sostrata…
FRA’ TIMOTEO: Voi siate le ben venute. Io so quello che voi volete intendere da me, perché messer Nicia m'ha parlato. Veramente, io sono stato in su' libri più di dua ore a studiare questo caso, e, dopo molte essamine, io truovo di molte cose che, ed in particulare ed in generale, fanno per noi.
LUCREZIA: Parlate voi da vero o motteggiate?
FRA’ TIMOTEO: Ah, madonna Lucrezia! Sono, queste, cose da motteggiare? Avetemi voi a conoscere ora?
LUCREZIA: Padre, no; ma questa mi pare la più strana cosa che mai si udissi.
FRA’ TIMOTEO: Madonna, io ve lo credo, ma io non voglio che voi diciate più così. E' sono molte cose che discosto paiano terribili, insopportabili, strane, che, quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabili, dimestiche, e però si dice che sono maggiori li spaventi che e mali: e questa è una di quelle.
LUCREZIA: Dio el voglia!
FRA’ TIMOTEO: Io voglio tornare a quello, ch'io dicevo prima. Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che, dove è un bene certo ed un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domenedio; el male incerto è che colui che iacerà, dopo la pozione, con voi, si muoia; ma e' si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltr'a di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose: el fine vostro si è riempiere una sedia in paradiso, e contentare el marito vostro. Dice la Bibia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorono con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorono.
LUCREZIA: Che cosa mi persuadete voi?
SOSTRATA: Làsciati persuadere, figliuola mia. Non vedi tu che una donna, che non ha figliuoli, non ha casa? Muorsi el marito, resta come una bestia, abandonata da ognuno.
Come vedete, qui Sostrata, difende gli interessi di famiglia, perciò la vuole convincere, perché teme che se Lucrezia non ha un figlio poi il nostro Nicia la cacci, la ripudi; perché così succedeva allora…
FRA' TIMOTEO: Io vi giuro, madonna, per questo petto sacrato, che tanta conscienzia vi è ottemperare in questo caso al marito vostro, quanto vi è mangiare carne el mercoledì, che è un peccato che se ne va con l'acqua benedetta.
LUCREZIA: A che mi conducete voi, padre?
FRA' TIMOTEO: Conducovi a cose, che voi sempre arete cagione di pregare Dio per me; e più vi satisfarà questo altro anno che ora.
SOSTRATA: Ella farà ciò che voi volete. Io la voglio mettere stasera al letto io. Di che hai tu paura, moccicona? E' ci è cinquanta donne, in questa terra, che ne alzerebbono le mani al cielo.
LUCREZIA: Io sono contenta: ma io non credo mai essere viva domattina.
FRA' TIMOTEO: Non dubitar, figliuola mia: io pregherrò Iddio per te, io dirò l'orazione dell'Angiolo Raffaello, che ti accompagni. Andate, in buona ora, e preparatevi a questo misterio, ché si fa sera.
SOSTRATA: Rimanete in pace, padre.
LUCREZIA: Dio m'aiuti e la Nostra Donna, che io non càpiti male.
E infatti Lucrezia lo farà, prenderà la pozione, starà la notte con Callimaco, parlerà con lui, risentita nei confronti del marito che le ha imposto questa umiliazione per poter avere un figlio; trascinata da questo risentimento e dalle buone parole di Callimaco, si innamora di lui e quindi si intuisce, nel finale della commedia, che andrà avanti la loro relazione. Callimaco ha conquistato non solo fisicamente con l’inganno la donna ma è entrato definitivamente nel suo intimo perché le si è mostrato come un uomo ben diverso dal marito ipocrita e cialtrone che è Nicia.
Ultima cosa da dire, chiudendo questa seconda lezione su Machiavelli, è che in realtà qualcuno ha visto, e bene, in questa commedia, una sorta di discorso metaforico: Lucrezia rappresenterebbe Firenze, o comunque lo Stato in genere, e Callimaco che cerca di conquistarla è il principe che vuole impadronirsi dello Stato o il popolo che vuole strappare il potere ai Medici. Va letta in senso repubblicano, come Callimaco-popolo che conquista Firenze; oppure in senso monarchico, a favore dei Medici, nel progetto per l’Italia centrosettentrionale, può essere letta come il Callimaco-principe che conquista il nuovo Stato dell’Italia centrosettentrionale.
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