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LEOPARDI: Ciclo di Aspasia, La ginestra




Antologia - 28^ Lezione

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LEOPARDI: CICLO DI ASPASIA, LA GINESTRA, LA CRITICA
 
Si chiude il ciclo relativo al secondo anno di un triennio, con l’ultima lezione su Leopardi. Con noi sempre Barbara. L’altra volta avevamo parlato di un ritorno della “volontà di canto” dopo le Operette morali, con “A Silvia”, poi del “Canto notturno”, dove immagina che il dolore sia cosmico, mettendo le sue parole in bocca ad un pastore del Kirghizistan, per concludere sulla generale negatività del vivere e sul tema della noia, il momento in cui, non avendo altra attività, ci soffermiamo a riflettere sulla nostra esistenza.
Leopardi poi si è innamorato di una cugina, ha pensato di essere ricambiato e ha avviato il cosiddetto “Ciclo di Aspasia”, in cui l’argomento principale è diventato l’amore. Questa esperienza nel giro di qualche mese si esaurisce con la inevitabile conclusione che la donna fa capire a Leopardi che ha equivocato, non poteva esserci il sentimento che lui intendeva; e la delusione finale lo fa uscire da questa esperienza in cui aveva tanto riposto la sua fiducia. Leopardi dà un nome mitico a questa donna, “Aspasia”, che è anche il titolo di uno dei cinque componimenti del ciclo, con “Consalvo”, “Amore e morte”, “Il pensiero dominante” e “A se stesso”.
Nei primi quattro si svolge il tema che è sintetizzato nel “Pensiero dominante”, l’amore stesso, che definisce come il “dolcissimo, possente dominator di mia profonda mente”. Già questa espressione ci indica che la caratteristica di questo sentimento è l’energia, la forza, quella potenza che gli dà una capacità che prima non sentiva. Infatti su questo motivo dell’energia che il poeta sente nell’esperienza d’amore farà leva chi vedrà in quest’ultimo Leopardi l’atteggiamento “eroico”, Walter Binni. Ma ne parleremo dopo.
Ci fermiamo invece adesso sul componimento con cui Leopardi chiude questa serie di canti del Ciclo di Aspasia, “A se stesso”, del 1835…
 
A SE STESSO
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.

 
Vedete la potenza espressiva con cui Leopardi impone “a se stesso” di smettere di credere in quell’inganno estremo, di poter fare innamorare di sé una donna. Amara considerazione. E poi c’è questa espressione: “amaro e noia la vita, altro mai nulla”. La vita è amarezza e noia e niente altro. E’ tipico della sua forma poetica sostituire l’aggettivo al sostantivo corrispondente: invece di “amarezza” dice “amaro”. Ritiene che sia più forte, più ridondante, più pregnante l’indicazione se si usa l’aggettivo. Analogamente invece di “dolcezza” dice “dolce”, in altri luoghi.
Dunque, rimprovera se stesso perché si è illuso ancora una volta. Il segreto del resistere a questa infelicità è non illudersi mai. Perché poi seguono una delusione e una depressione insopportabili, che aumentano la nostra sofferenza. Però, al di là di tutto, quello che ricaviamo da questo componimento costruito sulla negazione è l’elemento positivo di ciò che questo amore, pur nel suo aspetto ingannevole, ha lasciato in Leopardi: l’energia, questa forza che sentiamo anche nel tono del rimprovero nei confronti di se stesso. Leopardi è eroico nel negare a se stesso ogni altra illusione possibile. L’amore che ha vissuto lo ha reso più fiducioso, anche se poi lo ha deluso. E Walter Binni, come dicevamo, sosterrà in un suo famoso saggio che in questa fase, gli ultimi cinque, sei anni della vita poetica di Leopardi, il motivo dominante è l’atteggiamento eroico, che avevamo visto essere già preparato dal poeta in altri momenti della produzione precedente, ma che, mentre in quei canti era quasi di sfondo o secondario, qui diventa primario.
Il componimento che ormai tutti conosciamo come l’affermazione del Leopardi “eroico” è “La ginestra”, il fiore del deserto, come la definisce, scritta a Napoli, dove era ospite dell’amico Ranieri. Nasce dalla visione del mare di Napoli sotto il Vesuvio, questo straordinario paesaggio che si apre alla sua vista e gli ispira l’idea che la ginestra sulle falde del Vesuvio testimoni la resistenza dell’uomo alla desolazione della vita,  rappresentata nel percorso della lava lungo le pendici del vulcano. Leggi Barbara, c’è una premessa in greco …
 
LA GINESTRA O IL FIORE NEL DESERTO
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19

 
Nel vangelo di Giovanni si dice che gli uomini hanno preferito le tenebre del male alla luce del bene; ma Leopardi usa la frase in un altro senso, che gli uomini hanno preferito le tenebre del non sapere alla luce del sapere, del conoscere il proprio destino infelice. “La ginestra” è impostata sul tema che gli uomini  preferiscono pensare di essere nati per essere felici, come nel “Dialogo di Tristano e di un amico”, quando Tristano pensava di bruciare il suo libro perché nessuno voleva sentire la triste verità. Leggiamo…
 
Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d’armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l’altero monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

 
In questa prima parte Leopardi appunto dice che ha visto la ginestra sulle pendici del Vesuvio, ricoperte dalla lava, insieme con una civiltà, nell’eruzione famosa. E questa lava pietrificata sui resti di un insediamento umano è la testimonianza di quanto il nostro destino sia a cuore degli dei o della divinità intesa in senso generale, rispetto a quello che gli uomini pretendono, cioè che tutta la vita sulla terra sia stata organizzata per loro. Rappresenta la ginestra come la pianta del profumo soprattutto, che si impone su questo deserto, in questa immagine di squallore e distruzione,  richiamando alla speranza e alla vita. Poi ricorderà anche il colore della ginestra, il giallo, ricorderà la flessibilità di questa pianta che si piega, ma per resistere, non per arrendersi, e il suo sorgere in cespugli, che rappresenta quel motivo che tra poco vedremo, della unione che ci deve essere per resistere al male tutti insieme.
Dipinte qui, dice Leopardi, sono “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Era un’espressione di Terenzio Mamiani, suo contemporaneo, che parlava del progresso, già adesso, tema che si sarebbe poi sviluppato e avrebbe dato l’avvio all’età del positivismo, basato sulle conquiste scientifiche. Ma Leopardi si pone fuori da questa indicazione, da questa visuale, da questo trend, e aggiunge, leggo io…
 
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé.

 
Guardati, o secolo sciocco (l’Ottocento), tu che credi di segnare il passo verso il meglio e invece sei la testimonianza del ritornare indietro, perché hai abbandonato la ragione e ti sei affidato al sentimento; guardati qui allo specchio, sulle pendici del Vesuvio, a capire quanto sia scriteriato il tuo ottimismo. Tutti gli ingegni, i begli intelletti, esaltano questo tuo ottimismo, ma lo fanno ipocritamente, perché sanno bene che il destino non è quello della felicità; ma in mezzo a loro non io…
 
…Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch’io sappia che obblio
preme chi troppo all’età propria increbbe.

 
Io non mi mescolerò agli altri e dirò quanto disprezzo questo ottimismo dell’Ottocento, anche se so che poi mi eviteranno, mi isoleranno…
 
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.

 
Rido di questo male che è comune a te e a me. E’ il tema della risata, del Leopardi che reagisce in maniera sardonica alla sua infelicità e all’ignoranza degli altri…
 
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.

 
Tu vai cercando la libertà, però abbandoni il pensiero fondamentale che ci dà la vera libertà, quello della ragione. Allude al fatto che la ragione esaltata dall’illuminismo del Settecento è stata poi negata dai romantici dell’Ottocento, che si sono appellati al sentimento. Poi dirà altre cose, ma portiamoci all’inizio della strofa successiva…
 
Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
 

Un uomo che sia povero e malato non si presenta in maniera ridicola come ricco e sano, ma dice la verità, si definisce quello che è, povero e malato…
 
Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sì, che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.

 
Non definisco persona di grande animo quella che promette felicità a gente che invece basterebbe un terremoto o appunto un’eruzione vulcanica per travolgerla. Invece…
 
Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.

 
Nobile persona è quella che dice la verità, dice quanto la natura sia matrigna e non promette cose impossibili agli uomini…
 
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.

 
E questa nobile persona chiama nemica proprio la natura e ritiene che tutti gli uomini debbano riunirsi in una lega, in una solidale lotta contro il comune avversario.…
 
Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così qual fora in campo
cinto d’oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.

 
Gli uomini che fanno guerra gli uni agli altri sono i più stolti, perché comportarsi così è come, in un campo circondato da nemici, invece che pensare a difendere il proprio accampamento, cominciare a litigare. Quindi Leopardi si pronuncia contro la guerra…
 
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch’ha in error la sede.

 
Dice insomma che la base della convivenza civile è in questa razionale considerazione della necessità di stare uniti contro il comune amaro destino. Segue la parte cosmica…
 
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo?  E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

 
Quando guardo le stelle sul mare di Mergellina, sulla costa di Napoli (ci ha fatto vedere già questo paesaggio straordinario), penso che noi siamo niente rispetto ad esse. E quando mi metto a considerare che con tutto il sistema solare siamo una cosa infinitamente piccola rispetto alle nebulose e alle galassie, mi domando che senso abbia pensare che l’uomo sia una cosa così importante nell’universo. Se penso che tu, o umanità, hai creduto di essere la regina del cosmo, che tutto fosse stato creato per te, hai creduto di essere l’elemento fondamentale, quando non sei niente rispetto al tutto, non so se prevalga in me il riso o la pietà. E poi ha un’altra immagine, che, poiché il tempo stringe, vi devo riassumere.
Leopardi immagina che cada un frutto da un albero, per la sua sola maturità, e cancelli un popolo di formiche; e dice che la condizione degli uomini è simile a quella delle formiche, che muoiono sol perché un frutto è maturato sull’albero. Noi moriamo solo perché è normale, come che un frutto cada, che il magma che sta sotto la superficie della terra fuoriesca dalla bocca di un vulcano. Per un fatto naturale, consustanziato con il cosmo, con la natura, noi moriamo.
E poi, dopo aver fatto un riferimento a quei poveracci che si ritrovarono nella famosa eruzione, conclude sulla ginestra. Leggi tu, Barbara…
 
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
 codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

 
Il segreto dell’esistenza della ginestra e dell’uomo è quello di resistere al male senza credere in ottimismi ingiustificati. E ora, per chiudere, Barbara leggerà i giudizi che sono stati dati su Leopardi. Questo qui, famoso, è di Benedetto Croce. Sentiamo…
 
BENEDETTO CROCE, POESIA E NON POESIA
Quel riso cattivo, quello sfogo di rabbia, è veramente da mettere sul conto della natura a lui matrigna e crudelissima, sul Leopardi malato (…), e se merita le nostre riserve di critici, comanda la nostra pietà di uomini.
 
Assurdo questo giudizio di Croce: Leopardi ha quel pensiero negativo perché malato. Risponde Sebastiano Timpanaro…
 
SEBASTIANO TIMPANARO, CLASSICISMO E ILLUMINISMO NELL’OTTOCENTO ITALIANO
Bisogna riconoscere che la malattia dette a Leopardi una coscienza particolarmente precoce e acuta del pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo. Il torto dei cattolici alla Tommaseo, dei positivisti alla Sergi, degli idealisti alla Croce non sta nell’aver affermato l’esistenza di un rapporto tra vita strozzata e pessimismo, ma nel non aver riconosciuto che l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo.
 
Quindi la malattia di Leopardi è uno strumento conoscitivo, non un elemento negativo che spiega il suo pessimismo. Ancora Gramsci…
 
ANTONIO GRAMSCI, QUADERNI DAL CARCERE
In Leopardi si trova, in forma estremamente drammatica, la crisi di transizione verso l’uomo moderno, l’abbandono critico delle vecchie concezioni trascendentali, senza che ancora si sia trovato un “ubi consistam”, un punto di riferimento morale e intellettuale nuovo che dia la stessa certezza di ciò che si è abbandonato.
 
Evidente la positività di questo giudizio di Gramsci: Leopardi è visto come un precursore di un sistema diverso di analisi della realtà, anche politica. Vediamo cosa aveva detto De Sanctis un po’ di tempo prima…
 
DE SANCTIS, STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Leopardi produce l’effetto opposto a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa desiderare. Non crede alla libertà e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto.
 
Questa è una straordinaria e famosa definizione di De Sanctis, che Leopardi  ti fa amare quello in cui non crede. Di nuovo Croce…
 
Per ritrovare sotto il rispetto artistico Leopardi schietto e sano, bisogna cercarlo non dove egli polemizza, ironizza e satireggia e ride male, ma dove si esprime serio e commosso.
 
A conferma di quello che avevamo detto prima, Binni individua nell’opera leopardiana, a fianco della poetica idillica…
 
WALTER BINNI, LA PROTESTA DI LEOPARDI
… una poetica eroica, in cui la personalità del poeta batte con energia aggressiva e tende a presentarsi integralmente nella sua affermazione di passione in forme risolute e impetuose, dando voce alla maturazione conclusiva del persuaso pensiero ateo e antimaterialistico, antireazionario e antimoderato.
 

E poi abbiamo ricordato, quando abbiamo presentato Manzoni, il giudizio di Luporini, l’autore di un saggio su “Leopardi progressivo”, che intendeva come Leopardi fosse non reazionario come qualcuno lo aveva presentato, ma addirittura annunciatore di tempi nuovi, perché aveva intuito che il risorgimento stesso, in cui era calato, era un moto reazionario, invece che rivoluzionario come veniva spacciato; più precisamente, lo aveva implicitamente considerato così per il suo tirarsi fuori dal processo risorgimentale, di cui aveva istintivamente visto i limiti. E in tempi in cui non solo celebriamo l’unità d’Italia, ma anche la discutiamo con un po’ di revisionismo storico, cioè non discutiamo l’unità in sé, ma i meccanismi per cui il risorgimento poi ha avuto dei limiti, Leopardi torna ad essere attuale.
Con questa considerazione vi salutiamo e chiudiamo questo secondo anno di corso, dandovi appuntamento al terzo anno.
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