ANNO ACCADEMICO 2023-2024
Prof.ssa ROSSANA VARRONE
Il diritto e il processo in Grecia.
Il diritto greco è strutturato secondo uno schema radicalmente diverso da quello romano e, perciò, da quello odierno che da quest’ultimo deriva.
E’, però, il caso di chiarire che non esisteva allora uno stato greco e, quindi, non è possibile parlare di ”diritto greco”: ogni “polis”, infatti, chiusa nel suo particolarismo, era governata da leggi proprie a noi parzialmente note; più di tutti, conosciamo il diritto di Atene, soprattutto per la sopravvivenza delle orazioni giudiziarie che, sebbene siano fonti non specialistiche e spesso alterate da artifici retorici, costituiscono testimonianze importantissime.
In Grecia, fra l’altro, mancavano dei veri esperti di diritto: non lo erano neppure i GIUDICI, semplici cittadini al di sopra dei 30 anni, che formavano il tribunale popolare dell’ELIEA e che, a partire da Pericle, ricevevano dalla polis un sussidio di due oboli per svolgere questa mansione (trasformatasi presto in una vera e propria moda, come testimoniano anche alcuni testi di commedie teatrali).
Una differenza fondamentale, poi, fra l’organizzazione della giustizia dell’antichità e quella dei giorni nostri nei paesi civili consiste nel fatto che non esisteva un PUBBLICO MINISTERO: la giustizia, quindi, non perseguiva autonomamente i reati, ma ogni cittadino che lo volesse aveva il diritto, se non addirittura il dovere, di “venir in aiuto” alla legge, presentando una denuncia. Da questo stato di cose derivava, però, il fatto che lo Stato era praticamente costretto a incoraggiare la denuncia e ciò favoriva lo sviluppo del fenomeno dei “SICOFANTI” (delatori).
C’erano, poi, i LOGOGRAFI.
Essi non possono essere paragonati ai nostri avvocati: incaricati di scrivere a pagamento le orazioni, che venivano poi pronunciate in tribunale direttamente dalle parti coinvolte nel processo, essi avevano una preparazione retorica più che giuridica. Per tale motivo si sentivano praticamente autorizzati a persuadere i giudici più con espedienti dialettici che con la bontà e l’effettiva pertinenza delle argomentazioni. Essi arrivavano a interpretare le leggi in maniera distorta, per avvantaggiare il proprio assistito oppure citavano a bella posta leggi inesistenti.
Passando al PROCESSO vero e proprio, la distinzione, nel diritto attico, tra “dìkai” e “grafài” non corrisponde all’odierna ripartizione tra cause civili e penali. Le prime, infatti, potevano essere intentate esclusivamente dall’interessato e si limitavano a tutelare il diritto familiare. Le seconde erano quelle che ciascun cittadino, ritenendosi parte lesa in quanto membro della comunità, poteva sporgere e portavano a punire i reati contro la polis (come, per esempio, quelli di empietà o di tentato sovvertimento delle istituzioni.)
Il PROCESSO si divideva in due parti: la prima, quella istruttoria, si svolgeva davanti all’arconte “basileus” (re) che aveva il compito di valutare l’entità e l’idoneità delle prove addotte dalle due parti e di inoltrare poi la causa al tribunale competente;
La seconda era il processo vero e proprio e si svolgeva davanti ai giudici riuniti nel tribunale designato dall’arconte. I tribunali ad Atene erano moltissimi: solo per gli omicidi ne esistevano ben cinque.
Come abbiamo già detto, le parti in causa pronunciavano personalmente i discorsi di difesa o di accusa. A ciascuna delle parti era consentito pronunciare due discorsi, il primo della durata di 20/40 minuti, il secondo di una decina di minuti. Tranne nel caso in cui un presagio atmosferico di cattivo augurio facesse sospendere la seduta, i dibattiti si svolgevano senza interruzione e dovevano chiudersi il giorno stesso. Il tempo era misurato con una clessidra ad acqua che veniva fermata per la presentazione delle prove. I giudici, infine, procedevano alla votazione: a partire dal V sec. A. C., ogni giudice poneva un sassolino o una conchiglia in una delle due urne davanti alle quali passava, una destinata ai voti favorevoli all’accusato, l’altra per quelli di condanna. Se l’imputato veniva assolto, il processo era concluso; se risultava colpevole, si procedeva all’applicazione della pena prevista dalla legge oppure si valutava quale altra sanzione fosse opportuno infliggere.
Prof.ssa ROSSANA VARRONE
Il diritto e il processo in Grecia.
Il diritto greco è strutturato secondo uno schema radicalmente diverso da quello romano e, perciò, da quello odierno che da quest’ultimo deriva.
E’, però, il caso di chiarire che non esisteva allora uno stato greco e, quindi, non è possibile parlare di ”diritto greco”: ogni “polis”, infatti, chiusa nel suo particolarismo, era governata da leggi proprie a noi parzialmente note; più di tutti, conosciamo il diritto di Atene, soprattutto per la sopravvivenza delle orazioni giudiziarie che, sebbene siano fonti non specialistiche e spesso alterate da artifici retorici, costituiscono testimonianze importantissime.
In Grecia, fra l’altro, mancavano dei veri esperti di diritto: non lo erano neppure i GIUDICI, semplici cittadini al di sopra dei 30 anni, che formavano il tribunale popolare dell’ELIEA e che, a partire da Pericle, ricevevano dalla polis un sussidio di due oboli per svolgere questa mansione (trasformatasi presto in una vera e propria moda, come testimoniano anche alcuni testi di commedie teatrali).
Una differenza fondamentale, poi, fra l’organizzazione della giustizia dell’antichità e quella dei giorni nostri nei paesi civili consiste nel fatto che non esisteva un PUBBLICO MINISTERO: la giustizia, quindi, non perseguiva autonomamente i reati, ma ogni cittadino che lo volesse aveva il diritto, se non addirittura il dovere, di “venir in aiuto” alla legge, presentando una denuncia. Da questo stato di cose derivava, però, il fatto che lo Stato era praticamente costretto a incoraggiare la denuncia e ciò favoriva lo sviluppo del fenomeno dei “SICOFANTI” (delatori).
C’erano, poi, i LOGOGRAFI.
Essi non possono essere paragonati ai nostri avvocati: incaricati di scrivere a pagamento le orazioni, che venivano poi pronunciate in tribunale direttamente dalle parti coinvolte nel processo, essi avevano una preparazione retorica più che giuridica. Per tale motivo si sentivano praticamente autorizzati a persuadere i giudici più con espedienti dialettici che con la bontà e l’effettiva pertinenza delle argomentazioni. Essi arrivavano a interpretare le leggi in maniera distorta, per avvantaggiare il proprio assistito oppure citavano a bella posta leggi inesistenti.
Passando al PROCESSO vero e proprio, la distinzione, nel diritto attico, tra “dìkai” e “grafài” non corrisponde all’odierna ripartizione tra cause civili e penali. Le prime, infatti, potevano essere intentate esclusivamente dall’interessato e si limitavano a tutelare il diritto familiare. Le seconde erano quelle che ciascun cittadino, ritenendosi parte lesa in quanto membro della comunità, poteva sporgere e portavano a punire i reati contro la polis (come, per esempio, quelli di empietà o di tentato sovvertimento delle istituzioni.)
Il PROCESSO si divideva in due parti: la prima, quella istruttoria, si svolgeva davanti all’arconte “basileus” (re) che aveva il compito di valutare l’entità e l’idoneità delle prove addotte dalle due parti e di inoltrare poi la causa al tribunale competente;
La seconda era il processo vero e proprio e si svolgeva davanti ai giudici riuniti nel tribunale designato dall’arconte. I tribunali ad Atene erano moltissimi: solo per gli omicidi ne esistevano ben cinque.
Come abbiamo già detto, le parti in causa pronunciavano personalmente i discorsi di difesa o di accusa. A ciascuna delle parti era consentito pronunciare due discorsi, il primo della durata di 20/40 minuti, il secondo di una decina di minuti. Tranne nel caso in cui un presagio atmosferico di cattivo augurio facesse sospendere la seduta, i dibattiti si svolgevano senza interruzione e dovevano chiudersi il giorno stesso. Il tempo era misurato con una clessidra ad acqua che veniva fermata per la presentazione delle prove. I giudici, infine, procedevano alla votazione: a partire dal V sec. A. C., ogni giudice poneva un sassolino o una conchiglia in una delle due urne davanti alle quali passava, una destinata ai voti favorevoli all’accusato, l’altra per quelli di condanna. Se l’imputato veniva assolto, il processo era concluso; se risultava colpevole, si procedeva all’applicazione della pena prevista dalla legge oppure si valutava quale altra sanzione fosse opportuno infliggere.