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GARCIA MARQUEZ, BORGES, ECO



Antologia - TERZO ANNO - 30^ Lezione
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GARCIA MARQUEZ, BORGES, ECO

Trentesima lezione del terzo anno, che conclude questo corso di letteratura italiana. Ringrazio i collaboratori, il professore Armagno, che mi ha aiutato a montare le puntate, i ragazzi che mi hanno accompagnato, da Diego Florio a Mariateresa Spina a Barbara Petti, che ha collaborato in quasi tutte le lezioni dei due anni precedenti, fino a tanti altri studenti e studentesse che di volta in volta sono stati coinvolti in questo progetto.
Questa lezione conclusiva è dedicata soprattutto a Umberto Eco. Però, prima di entrare nella sua narrativa, voglio ricordare due autori americani, Gabriel Garcia Marquez e Jorge Luis Borges, che in Colombia e in Argentina hanno dato dimostrazione di quanto possa la letteratura latinoamericana in termini di magia, soprattutto, di fantasia. Prendiamo Marquez e il romanzo che gli ha dato la celebrità: “Cent’anni di solitudine”. E’ nato ad Aracataca, in Colombia, nel 1927 e in quest’opera immagina la comunità di Macondo, il cui nome viene da un vigneto che vedeva sempre quando viaggiava in treno in quei luoghi. E’ un villaggio fantastico nel quale Josè Arcadio Buendìa cerca l’evasione, la possibilità di recarsi altrove, per un’altra vita migliore. Leggo il primo passo…
 
José Arcadio Buendìa, che era l'uomo più intraprendente che si fosse mai visto nel villaggio, aveva disposto in modo tale la posizione delle case, che da ognuna si poteva raggiungere il fiume e far rifornimento di acqua con uguale sforzo, e tracciate le strade con tanto buonsenso che nessuna casa riceveva più sole delle altre nell'ora della calura. In pochi anni, Macondo fu un villaggio più ordinato e laborioso di quanti ne avessero conosciuto fin  lì i suoi trecento abitanti. Era veramente un paese felice, dove nessuno aveva più di trent'anni e dove non era morto nessuno.
 
Questa è la premessa, da cui poi nasce in Josè Arcadio Buendìa il sogno di spostarsi per aprire nuove strade e nuove possibilità. L’autore infatti prosegue, poco dopo…
 
(…) Quello spirito di iniziativa sociale sparì in poco tempo, travolto dalla febbre della calamita, dai calcoli astronomici, dai sogni di trasmutazione e dalle ansie di conoscere le meraviglie del mondo.
 
Nasce la missione di cui si sente investito Buendìa, quella di andare a cercare uno sbocco verso il mare a nord, superando la sierra che chiude questa terra…
 
In base ai calcoli di José Arcadio Buendìa, l'unica possibilità di contatto con la civiltà era il cammino del nord. Perciò munì di utensili per disboscare e di armi da caccia gli stessi uomini che lo avevano accompagnato nella fondazione di Macondo: buttò in uno zaino i suoi strumenti di orientamento e le sue mappe, e intraprese la temeraria avventura.
Durante i primi giorni  non incontrarono seri ostacoli. Scesero lungo la pietrosa sponda del fiume fino al luogo in cui anni prima avevano trovato l'armatura del guerriero…

 
Viaggiano, viaggiano, viaggiano, fino a che…
 
(…) Sfiniti per la lunga traversata, appesero le amache e dormirono profondamente per la prima volta dopo due settimane. Quando si svegliarono, già col sole alto, rimasero stupefatti. Davanti a loro, circondato da felci e palme, bianco e polveroso nella silenziosa luce del mattino, c'era un enorme galeone spagnolo.
(…) Il ritrovamento del galeone, indizio della vicinanza del mare, frantumò l'impeto di José Arcadio Buendìa. Riteneva una burla del suo avverso destino l'aver cercato  il mare senza trovarlo, a costo di sacrifici e patimenti incalcolabili, e trovarlo adesso che non l'aveva cercato, messo  lì sulla loro strada come un ostacolo inevitabile. Molti anni dopo, il colonnello Aureliano Buendìa percorse di nuovo la regione, quando era ormai un regolare tragitto di posta, e l'unica cosa che trovò della nave fu l'ossatura carbonizzata  in mezzo a un prato di papaveri. Finalmente convinto che quella storia non era stata un prodotto dell'immaginazione di suo padre, si chiese come mai quel galeone avesse potuto addentrarsi fino a quel punto in terraferma. Ma José Arcadio Buendìa non si prospettò quella preoccupazione quando trovò il mare, al termine di altri quattro giorni di viaggio, a dodici chilometri di distanza dal galeone. I suoi sogni terminarono davanti a quel mare color cenere, schiumoso e sudicio, che non meritava i rischi e i sacrifici della sua avventura.
"Diamine!" gridò. "Macondo è circondata dall'acqua da ogni parte."

 
Dopodiché sembra rassegnato, ma un giorno comincia a mettere tutto nelle casse, pronto per una partenza…
 
(…) Solo quando cominciò a smontare la porta dello stanzino, Ursula (la moglie) si arrischiò a chiedergli perché lo faceva, e lui le rispose con una certa amarezza: "Dato che nessuno vuole andarsene, ce ne andremo noi soli." Ursula non si turbò.
"Non ce ne andremo," disse. "Restiamo qui, perché qui abbiamo avuto un figlio.
"Non abbiamo ancora un morto," disse lui. "Non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra."
Ursula ribatté, con dolce fermezza:
"Se è necessario che io muoia perché gli altri restino qui, io morirò."
 

E così Arcadio si rassegnerà a non partire da Macondo, nella quale era rientrato mortificato dall’insuccesso della sua avventura precedente. “Cent’anni di solitudine” è appunto un romanzo sulla solitudine di un uomo, di una terra, di un popolo, di un subcontinente, l’America meridionale, che è colonizzato. Infatti la conclusione di questa vicenda sarà l’arrivo di una società nordamericana per la piantagione delle banane, che rovinerà tutto quanto è stato predisposto in questa comunità. Quindi lo sfruttamento secolare dell’America latina riemerge nelle pagine di questo autore che ha avuto il premio Nobel nel 1982 e ha scritto un altro straordinario romanzo, “L’autunno del patriarca”, e poi un racconto di cento pagine, “Cronaca di una morte annunciata”. Ve ne leggo il passo iniziale…
 
Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il battello con cui arrivava il vescovo. Aveva sognato di attraversare il bosco di higuerones sotto una pioggerella tenera, e per un istante fu felice dentro il sogno, ma nel ridestarsi si sentì inzaccherato da capo a piedi di cacca d’uccelli.
 
Vedete, il racconto ha già una sua strana suspense iniziale: “il giorno che l’avrebbero ucciso…”. Infatti Santiago sarà ucciso. Chi racconta tutto è un protagonista, cugino di Santiago, che trent’anni dopo ricorda questo evento tragico. Nasar, recatosi ad aspettare la visita del vescovo, viene raggiunto dai gemelli Vicario, fratelli di Angela, e viene ucciso perché si ritiene che abbia avuto un rapporto con la ragazza, cosa che ha determinato il fatto che lei non fosse vergine al matrimonio con Baiardo San Roman, che, quando appunto, la prima notte di nozze, constata che non è vergine, la restituisce alla famiglia; e questa interroga Angela, che fa il nome di Santiago. Lui, ignaro di tutto, innocente, viene giustiziato nella piazza del paese, macellato, per l’onore. Tra l’altro ricordiamo che diversi anni dopo Angela si rimette insieme con Baiardo San Roman. Con questo breve racconto Garcia Marquez vuole parlare del tema dell’onore, che è così forte e così tragicamente violento, prevaricante, in questa società che non si aggiorna, troppo legata ad antiche tradizioni.
Collegato a questo autore è Borges, argentino, di cui non leggeremo nulla. Ricorderemo soltanto che anche lui è nell’ambito del “realismo magico”, del sogno. Borgesiano diventa sinonimo appunto di visionario. Lo citiamo anche perché a sua volta, nel “Nome della rosa” di Umberto Eco, viene raffigurato nel malefico bibliotecario autore di tanti delitti, lui che è stato appunto il direttore della grande Biblioteca di Buenos Aires, nel periodo immediatamente precedente all’avventura di Peron, alla dittatura di Peron, che lo rimuoverà da questo incarico proprio perché è il rappresentante dell’aristocrazia terriera contro la quale si muove il suo governo populista.
Peron aveva al suo fianco, come tutti sanno, Eva Duarte, che rimase famosa come “Evita” e divenne un mito per gli argentini, ancora oggi lo è. Ballerina, cantante, si unisce a lui e diventa la first lady nazionale, che si dedica alla beneficenza, ai sogni del suo popolo, cerca con lotterie e altri sistemi di creare delle aspettative per una popolazione che in realtà è in grave difficoltà economica. Già agli inizi della sua avventura, Peron, assecondando il movimento dei “descamisados”, che protestavano contro i proprietari terrieri, ridusse i loro privilegi con una riforma agraria. Poi però, naturalmente, il suo regime si è rivelato liberticida, come avviene per tutte le dittature, quindi non è rimasto, per questo aspetto, per questo verso, un buon ricordo di quella esperienza, ma il mito di Evita è sopravvissuto, fino ai suggestivi riferimenti di un musical famoso, “Evita”, con Madonna nel ruolo di Eva Duarte e Banderas in quello di Che Guevara. “Don’t cry for me Argentina” è il motivo musicale più pieno di magica eco di questo stupendo musical di Alan Parker, che comunque non ha avuto buona critica, proprio perché parlava del peronismo, che in certi ambienti non viene ben visto, e perché protagonista è Madonna, che alcuni esperti di cinema hanno maltrattato. Invece la sua, a mio avviso, fu un’ottima interpretazione, al di là delle sue straordinarie doti vocali.
Parlavo di Borges, che vediamo ricomparire evocato in qualche modo, come vedremo, nel più grande romanzo di Umberto Eco, del 1980, “Il nome della rosa”. Eco ha scritto anche “Il pendolo di Foucault”, ambientato nei nostri tempi, con riferimento a questo famoso pendolo della “Sala delle Arti e Mestieri” di Parigi, che serve a dimostrare la rotazione della terra intorno al proprio asse. E’ una storia che mette in burla tutti i movimenti, massonici, filomassonici, paramassonici, o tutte le grandi sette che si sono presentate come progetti e che in realtà erano dei grandi bluff.
Poi c’è “L’isola del giorno prima”, un’opera ambientata nel Seicento, dove si immagina un naufrago che ha di fronte a sé, lontana, un’isola irraggiungibile, la meta dei suoi pensieri, che rappresenta una salvezza impossibile. E l’autore rivisita i momenti importanti di quell’epoca, soprattutto il tema della scienza e della natura.
Ce n’è un altro ambientato nel medioevo, tra la fine del dodicesimo e  l’inizio del tredicesimo secolo, “Baudolino”, con protagonista Federico Barbarossa, le crociate e altro. Sono tutti romanzi di straordinaria ambientazione storica, ma quello che ha dato la fama a Umberto Eco è il primo, “Il nome delle rosa”.
E’ la storia di una serie di delitti che si verificano in un’abbazia che si trova in una località imprecisata del confine tra l’Italia e la Francia, sulle Alpi, nella quale arriva Guglielmo da Baskerville, un cultore ma anche un rappresentante simbolico di Guglielmo di Ockham, che nello stesso periodo combatteva la sua battaglia per rendere la Chiesa più democratica e far sì che le sue decisioni fossero prese dal sinodo dei vescovi anziché da uno solo, cioè dal papa, ed era anche il filosofo del nominalismo; da qui l’importanza data alla parola, al nome che si offre alle cose. Infatti il titolo del romanzo fa riferimento a una frase in latino: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Cioè la rosa antica esiste per il nome, riusciamo a mantenere i nomi, i nudi nomi, soltanto i nomi. Quello che dà tempo, eternità, alle cose è il nome, è il parlarne, è il romanzo.
Guglielmo arriva in questa abbazia accompagnato da Adso da  Melk, giovane secondogenito del barone di Melk, in Austria. Il primogenito allora ereditava, gli altri figli dovevano abbracciare la carriera religiosa. La nostra lezione sarà di volta in volta integrata da scene tratte dallo splendido film di Jean Jacques Annaud, del 1986, in cui Guglielmo è interpretato da un eccezionale Sean Connery, che scorreranno sotto le mie parole e di volta in volta emergeranno con i loro dialoghi. In questa trascrizione riportiamo i contenuti di tutti i dialoghi citati, a partire da questo tra Guglielmo e Adso…
 
(Scene dal film “Il nome della rosa”, di Annaud)
GUGLIELMO: (nella cella, vedendo Adso agitato) Adso…
ADSO: Ditemi, maestro.
GUGLIELMO: Per dominare la natura, prima dobbiamo apprendere a obbedirle. Quindi torna nella corte, costeggia l’edificio a sinistra, entra nel chiostro sulla destra e là troverai il luogo di cui hai bisogno, dietro il terzo arco.
ADSO (si avvia, poi si ferma sulla porta): Voi non avevate mai visitato questa abbazia!
GUGLELMO: Arrivando, ho visto un fratello che vi si dirigeva correndo con una certa fretta e poi l’ho visto uscirne più lentamente e con l’aria molto soddisfatta.

 
Adso è entrato nell’ordine francescano e segue, come novizio, Guglielmo. Baskerville è un riferimento a uno dei romanzi di Arthur Conan Doyle, “Il mastino dei Baskerville”, e questo già imposta una delle nature di questo racconto, quella poliziesca…
 
GUGLIELMO (salendo lungo il costone verso la biblioteca dell’abbazia) Spesso il terreno è una pergamena sulla quale un criminale lascia involontariamente la sua firma. Per esempio, che cosa leggiamo da queste impronte?
ADSO: Che sono due volte più profonde delle altre, maestro.
GUGLIELMO: Bene. E quindi che cosa concludiamo?
ADSO: Che quell’uomo era assai pesante.
GUGLIELMO: E perché era tanto pesante?   
ADSO: Perché era molto grasso.
GUGLIELMO: Oppure perché era appesantito dal fardello di un altro uomo. Teniamo bene a mente i segni lasciati da questo sandalo.
ADSO: Ma le orme si allontanano  in direzione della ghiaia.
GUGLIELMO: Sei un testone, Adso, tu scarti la possibilità che l’uomo camminasse indietro, trascinando il corpo.
 

Il nome “Adso” è una deformazione di “Watson”, il compagno di Sherlock Holmes. E addirittura nel “Nome della rosa” ricorrono ogni tanto le stesse espressioni, come “Elementare, Adso”, per dire “Elementare, Watson”, con Conan Doyle…
 
ADSO: Voi intendete che si è suicidato?
GUGLIELMO: Sì, perché uno dovrebbe arrampicarsi lassù di notte durante un uragano? Non certo per ammirare il paesaggio.
ADSO: Potrebbe essere stato assassinato, maestro.
GUGLIELMO: L’assassino si sarebbe arrampicato fino a lassù con il cadavere? Sarebbe stato molto più agevole buttarlo da quella feritoia, dove buttano gli avanzi ai poveri. No, no, no. Mio caro Adso, è elementare!

 
Lo stesso Eco dichiara di avere scritto il romanzo al computer, mettendo insieme tante fonti e pescando di qua e di là dalla varia tradizione. Oltre al filone del giallo, c’è anche quello psicologico, l’idea di questo rapporto tra Guglielmo e il giovane novizio come tra padre e figlio, un padre che cerca il figlio e il figlio che cerca in lui un padre. E’ una riflessione psicanalitica e insieme omerica. In questa scena Adso confida il suo sentimento per la ragazza incontrata nell’abbazia …
 
ADSO: (dal suo giaciglio) Voi siete mai stato innamorato?
GUGLIELMO: Innamorato? Parecchie volte!
ADSO: Davvero?
GUGLIELMO: Sì, certo. Aristotele, Ovidio, Virgilio…
ADSO: No, no. Io intendevo…
GUGLIELMO: (sollevandosi verso di lui) Ah, non è che tu confondi l’amore con la lussuria?
ADSO: Ah sì…Non lo so. Voglio soltanto il suo nome. Voglio che sia felice. Vorrei salvarla dalla miseria.
GUGLIELMO: Ahi, ahi.
ADSO: Perché ahi ahi?
GUGLIELMO: Sei innamorato.

 
C’è anche una radice storica, perché in uno dei personaggi di questa vicenda, Remigio da Varagine, dolciniano, protagonista della violenza contro i ricchi di quel periodo, una sorta di comportamento terrorista del tempo, si vuole rivedere la stagione di piombo degli anni immediatamente precedenti al 1980, data della pubblicazione del libro. Nel 1978 c’era stato il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Qui, in proposito, vediamo Salvatore, che scopriremo poi ex dolciniano, che nel suo linguaggio strano pronunzia la parola “penitenziagite”; e al ritorno dall’incontro con lui…
 
ADSO: Maestro, che linguaggio usava quell’uomo?
GUGLIELMO: Tutti i linguaggi e nessuno.
ADSO: E qual era la parola che pronunciavate?
GUGLIELMO: Penitenziagite.
ADSO: Che cosa significa?
GUGLIELMO: Significa che senza dubbio quel gobbo è stato un eretico. “Penitenziagite” era il motto dei frati dolciniani.
ADSO: I dolciniani. E chi erano, maestro?
GUGLIELMO: Erano quelli che credevano nella povertà di Cristo.
ADSO: Come noi francescani!
GUGLIELMO: Sì, ma loro sostenevano che tutti dovevano essere poveri. E massacravano i ricchi.

 
Anche le immagini della Inquisizione, del vescovo domenicano Bernardo Gui, il grande indagatore che nel finale del romanzo dà la sua spiegazione dei delitti, naturalmente richiamando l’intervento del diavolo nelle cose, sono un richiamo simbolico ad ogni forma di potere autoritario…
 
GUI: (sollevando prima un gallo nero e poi un gatto nero, trovati con la ragazza e uno dei monaci) Quante volte ho già visto questi lugubri oggetti per l’adorazione del demonio! Il galletto nero e il gatto nero!
ADSO: (a Guglielmo) L’ha fatto per mangiare, non per il demonio, dillo! 
GUI: Certo anche Guglielmo da Baskerville ricorderà il processo da lui presieduto durante il quale una donna confessò di avere avuto rapporti carnali con il demonio sotto forma di un gatto nero!
GUGLIELMO: Sono sicuro che non abbiate bisogno di basarvi sulle mie passate esperienze per formulare le vostre conclusioni.
GUI: No. No davvero. Non davanti a tale irrefutabile evidenza! Una strega, un monaco sedotto, riti satanici!

 
Nelle ore successive, con i soliti metodi, si estorcono le confessioni…
 
GUI: Salvatore, puoi ripetere la confessione fatta la notte scorsa, che tu e il tuo complice Remigio da Varagine eravate eretici dolciniani?
SALVATORE: Oh sì, sì (e farfuglia le solite parole incomprensibili)
GUI: Grazie.
SALVATORE: In nomine patris et filii…
GUI: Basta! (rivolto al cellario Remigio) Remigio da Varagine, neghi tu ciò che il tuo complice ha confessato?
REMIGIO: No. Non lo nego. (grida) Io ne sono fiero! Nei dodici anni che sono stato qui non ho fatto altro che rimpinzarmi la pancia, soddisfare la mia verga e imporre le decime ai contadini affamati. Ma adesso voi mi avete dato la forza di ricordare ciò a cui un tempo ho creduto con tutto il mio cuore e perciò vi ringrazio.
GUI: Per averti ricordato che un tempo saccheggiavi e bruciavi la proprietà della Chiesa?
REMIGIO: (gridando) Sì! E restituire alla gente ciò che quelli della tua razza le avevano sottratto!

 
E la biblioteca del romanzo, nella quale sono conservati tanti libri che non possono essere letti da nessuno, perché pochi sono quelli che circolano nello “scriptorium” , sta a rappresentare la censura e la volontà di una certa autorità di nascondere ciò che potrebbe essere un problema per i progetti del potere, allora come interventi della Chiesa, oggi come interesse di un governo dispotico. Tra l’altro questo volume che è al centro del giallo, il secondo libro della “Poetica” di Aristotele, che parla della commedia e del riso, che ha causato tante morti, come scoprirà Guglielmo, questo grande indagatore, sta a indicare, nel fatto che il grande Jorge eviti di farlo leggere, circolare, nell’unica copia che è rimasta e che se non fosse trascritta e ritrovata si perderebbe, questo codice, che raffigura la possibilità di ridere, è per Jorge destabilizzante. Lo fa capire a Guglielmo nello “scriptorium”…
 
JORGE: Ho udito persone che ridevano di cose risibili. Voi francescani tuttavia appartenete a un ordine dove la giocondità è vista con indulgenza.
GUGLIELMO: Sì, è vero, il nostro Francesco era ben disposto al riso.
JORGE: Il riso è un vento diabolico che deforma il volto e rende gli uomini simili alle scimmie.
GUGLIELMO: Ma le scimmie non ridono! Il riso è proprio dell’uomo.
JORGE: Come il peccato! Cristo non rideva mai!
GUGLIELMO: Ne siete sicuro?
JORGE: Non c’è nulla nelle scritture che induca a ritenerlo!
GUGLIELMO: Ma neppure nulla che induca a credere il contrario!

 
La Chiesa ha bisogno di serietà, il riso è rivoluzionario, dal punto di vista di Jorge. Anche questo sta a rappresentare da un lato il tentativo di conservare il potere nella sua rigidità e dall’altro la lotta per scalzare questa forza che non ci permette la libera espressione. E’ la chiusura della censura contro la libera formazione della mente. Ma anche nel campo quotidiano Guglielmo dice al suo novizio Adso che lui ha tutta un’altra visione dello stesso messaggio di Cristo e ricorda che certe cose non sono presenti nel vangelo, ma sono state adattate, appiccicate ai testi sacri da certa tradizione cattolica.
Anche la discussione organizzata nell’abbazia, tra poveri e ricchi, ordini mendicanti e altri più inseriti nella società che conta, tra francescani e domenicani, e all’interno dei francescani fra spirituali e conventuali, con tutti e due n contrasto con i cardinali, che rappresentano il lusso, la ricchezza di Roma, anche questo ha valore come ricostruzione di un’epoca, che è quella del 1327, l’anno in cui è ambientata questa storia, ma è anche un riferimento ai nostri giorni, o a situazioni successive fino ai nostri giorni.
Il romanzo di Eco è veramente una “summa”. Ma raccontiamo brevemente la storia. Guglielmo è arrivato lì, si trova di fronte a una serie di delitti e per ciascuno riesce a ricostruire una sua verità, perché ha questa grande capacità di investigazione. E capisce alla fine che all’origine dei delitti è appunto la presenza di questo libro e il fatto che qualcuno, sfidando Jorge, legga quello che non dovrebbe, di nascosto. Jorge ha trovato un sistema per ucciderli, quello di mettere dell’arsenico sulle pagine che sfogliano. Infatti si ritrovano le punte delle dita e la lingua neri nei cadaveri. Gli altri non danno importanza a queste cose, ma Guglielmo capisce che sono tracce dell’avvelenamento da arsenico e che questo è avvenuto leccando le dita per trattenere le pagine quando si vuole passare da una all’altra.
E quando arriverà alla fine, in questa biblioteca labirintica, a incontrare il grande Jorge che sta nascondendo il codice e il vecchio gli farà leggere questo libro che lui gli chiederà, pensando di potere avvelenare anche lui, Guglielmo sarà pronto a sfogliare questo libro con un guanto. Cosa che il vecchio non vede, perché è cieco, come lo è stato  Borges nella parte finale della sua vita.  Jorge non a caso ne richiama anche il nome. Il primo è stato rappresentante del mondo conservatore della società argentina e il secondo è il conservatore di questa vicenda. Guglielmo si premunirà con questo guanto e Jorge, quando lo saprà da lui stesso, farà saltare tutto e darà fuoco alla biblioteca. E Guglielmo allora lo vediamo alla ricerca della salvezza per questi libri. Per lui il sapere, lo scibile umano, quello che si è scritto nel passato è fondamentale, per la ricerca, per la libertà di espressione, per il movimento, per la trasformazione, per lo sviluppo di una società.
Eccovi la conclusione di questo straordinario romanzo di Umberto Eco, nelle parole finali del film e del libro…
 
Ripeto ancora oggi a me stesso che la mia scelta fu buona e feci bene a seguire il mio maestro. Quando infine ci separammo, egli mi fece dono delle sue lenti, poi mi abbracciò con la tenerezza di un padre e mi disse: “Tu hai vissuto in questi giorni, mio povero ragazzo, una serie di avvenimenti in cui ogni retta regola sembrava essersi sciolta. Ma l’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente. E la verità si manifesta a tratti anche negli orrori del mondo, così che dobbiamo decifrarne i segni, anche là dove ci appaiono oscuri, e intessuti in una volontà del tutto intesa al male”. Non lo vidi più, né so che cosa sia accaduto di lui. Ma prego sempre che Dio abbia accolto l’anima sua e gli abbia perdonato i molti atti di orgoglio che la sua fierezza intellettuale gli aveva fatto commettere. Ma ora che sono molto, molto vecchio, mi rendo conto che, di tutti i volti che dal passato mi ritornano alla mente, più chiaro di tutti vedo quello della fanciulla che ha visitato tante volte i miei sogni di adulto e di vegliardo. Eppure dell’unico amore terreno della mia vita non avevo saputo né seppi mai il nome.
 
Chi racconta la storia è Adso da vecchio, che ritorna a quanto è accaduto in quella abbazia tanti anni prima. E vi ritorna perché è stato educato da questa vicenda che ha informato la sua vita. Con questo Eco ci vuole dire che ciò che noi leggiamo o raccontiamo è fondamentale nella nostra esistenza. E non è niente altro che quanto abbiamo cercato di fare utilizzando la letteratura per insegnare o trasmettere qualcosa, in questa serie di Antologia. Arrivederci.
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