Antologia - TERZO ANNO - 22^ Lezione
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NARRATIVA MOLISANA DEL PRIMO NOVECENTO: FRANCESCO JOVINE
Dedichiamo la ventiduesima lezione a un autore molisano, Francesco Jovine, convinti come siamo che in un programma di letteratura debba esserci comunque spazio per la cultura regionale. Si può comprendere che nell’economia di un percorso previsto per studenti di altra regione possa non trovare luogo la trattazione di Jovine, per fare posto ad altra personalità del territorio, ma comunque l’area locale deve essere valorizzata, con tutte le sue tradizioni e i suoi riferimenti, nello spirito non solo delle indicazioni che vengono dal ministero della pubblica istruzione, ma anche di quella Europa delle regioni che considera patrimonio insostituibile l'apporto delle piccole comunità.
Francesco Jovine ha ricevuto un premio Viareggio per “Le terre del Sacramento”, il suo ultimo romanzo, che fu pubblicato pochi giorni dopo la sua morte, nel 1950. Cominciamo questo percorso partendo dalle sue origini di Guardialfiera, con i primi interventi letterari, come “Il burattinaio metafisico”, dedicato a Pirandello e al suo teatro, nel 1928, e “Un uomo provvisorio”, contro D’Annunzio e il fascismo, nel 1934. Sarà accusato di attività antifascista, dopodiché, tra il 1937 e il 1940, emigrerà a Tunisi e al Cairo, poi tornerà nelle file della Resistenza e, dopo aver già pubblicato “Il ladro di galline” nel 1940, scriverà una serie di racconti, raccolti dopo la sua morte con il titolo di “Viaggio in Molise”, nel 1967.
Del 1942 è “Signora Ava”, il suo primo grande romanzo, in cui parla dell’arrivo dei garibaldini a Guardialfiera. E’ una situazione simile a quella del “Gattopardo”. Anche qui i potenti del paese, i De Risio, temono di poter perdere tutto, ma in realtà il risorgimento si confermerà una rivoluzione conservativa, per cui manterranno i loro privilegi. Al centro della vicenda, con i De Risio, proprietari di importanti beni in questo paese, c’è Pietro Veleno, che si innamora di una componente di quella famiglia, Antonietta, e il parroco locale, don Matteo. Ma vediamo come viene raccontata questa vicenda, in una nostra ricostruzione filmata con il laboratorio teatrale del liceo “Galanti”, dal notaio Scansi, da noi immaginato come colui che riferisce i fatti leggendo anche passi del suo stesso autore. Trascriviamo la sceneggiatura, nella forma ridotta, adattata a questa lezione…
Il sole intanto s’era alzato nel cielo sgombro di nuvole e la campagna s’empì pian piano del suono delle campane delle mucche. I panni s’erano asciugati e le membra s’erano sciolte nel tepore dei raggi. Per qualche ora parve che nulla fosse accaduto: la notte d’uragano, la grandine, la pioggia, il vento. Il cielo profondissimo e immobile li proteggeva come un manto ridente e il sole tiepido era sulle loro teste e andava lentamente per la sua strada aiutando con i suoi raggi a medicare le ferite alle foglie percosse, ai rami, al grano tenero, che aveva chinato umilmente il capo sotto la sciagura notturna…Tutto il paesaggio aveva ripreso una placida solidità. L’aria, l’acqua e il sole avevano cessato di farsi guerra e benedicevano quel gruppo di uomini fedeli, che tornavano santamente alle loro case. Dopo mangiato dormirono un poco sulla terra umida col sole negli occhi.
Questi erano i nostri contadini. E intanto succedeva qualcosa. Un giorno, al casino dei galantuomini, con me, alcuni di questi guardiesi…
SCANSI-Non ci sono notizie, è stata una cosa tutta inventata o un tentativo fallito come ce ne sono stati tanti. I tempi non sono ancora maturi. Avete visto la paura dei contadini? E pensare che noi la rivoluzione vogliamo farla per loro, perché finalmente vivano in una patria più libera e giusta.
(gli altri gli chiedono che cosa succederà)
SCANSI-Io prevedo una vasta rivoluzione europea, fatta in nome dell’equità, della fratellanza e del principio: “maggiori meriti, maggiori beni.
FLEBOTOMO-E quest’affare dei meriti chi lo stabilisce?
SCANSI-La giustizia. Mi pare che non siano possibili dubbi di sorta.
FLEBOTOMO-Quale giustizia, quella di Dio o degli uomini?
SCANSI-Quella degli uomini, Don Peppe caro.
FLEBOTOMO-E allora…
Un altro giorno, in casa De Risio, sempre con me, c’è Don Matteo…
DON MATTEO: Ma sapete qualcosa?
SCANSI: No, non sappiamo niente. Don Eutichio ha avuto ieri un rapporto che parla di movimento in Sicilia, ma tutto pare finito. C’è da fidarsi? Un giudizio esatto, Matteo, non si può mai fare ascoltando una sola campana.
DON MATTEO: Ma secondo voi ci sarà una guerra?
SCANSI: Una guerra c’è sempre. E’ difficile stabilire quando.
E poi ancora, sempre con me, don Eutichio…
DON EUTICHIO-Tutto quel grano prestato ai contadini…non vedo l’ora di vedermelo tornare nei magazzini…col debito aumento…ma dicono che non restituiranno nulla se arriva la rivoluzione…e le quote acquistate per avere la Difesa, quando ci sarà l’esproprio…temo di perdere anche quelle con tutta questa sovreccitazione…
SCANSI-Lascia pure i contadini nell’illusione che non pagheranno mai il debito. La rivoluzione, se ci sarà, non può essere che il trionfo della legge, della giustizia. Allora tutta la Difesa delle Camarelle, carte sante alla mano, cadrà nelle vostre braccia. Fiducia, Don Eutichio.
Dopo un po’ vediamo Pietro a colloquio con don Matteo, il parroco di Guardialfiera…
(Don Matteo spara due colpi e si lamenta perché fallisce il bersaglio, Pietro ride)
DON MATTEO-Ridi, ridi. Ridere e scherzare alla tua età non fa mai male. I problemi verranno con gli anni.
PIETRO-Si può morire anche quando si è giovani!
DON MATTEO-Certo, certo, il Signore può richiamare a sé ance gli angeli…ma chi muore?
PIETRO-Muore Antonietta.
DON MATTEO (scacciando un sospetto)-Ti dispiace, eh, Pietro, la malattia di Donna Antonietta? Ma non muore, caro mio, non muore. Chi non ha avuto in vita sua le febbri di malaria? Io le ho avute per un anno di seguito, e come vedi eccomi qua.
PIETRO-E tu come hai fatto a guarire?
DON MATTEO (con sorriso furbesco)-Eh, eh, ci pensò Monsignor Berotta a farmi guarire. Ricevette una lettera anonima e mi mandò per sei mesi a cambiare aria nel Convento di San Marco Lacatola. Se Donna Antonietta cambiasse aria, invece di prendere tutti i decotti che le dà il fratello, Don Carlo, guarirebbe in un fiat. Dovrebbero rimandarla a Termoli. Aria di mare, buoni cibi, buona compagnia.
PIETRO- Invece ho visto io Concetta Minobla portarle una medicina che non è servita a niente…
Tutti i boschi intorno alla conca di Guardia erano pieni di soldati del Re che facevano la guerra ai galantuomini che andavano d’accordo con gli stranieri venuti a mettere a ferro e fuoco tutto il Regno….Una mattina all’improvviso dalle croci di Ventosotto venne un’eco di canti e di spari e comparve una compagnia di galantuomini armati che partivano per la guerra…
A casa De Risio arrivano i guardiesi e vogliono parlare con il colonnello. E’ quello che li ha animati sempre alle nuove idee, non riescono a farsi ascoltare da lui perché si affaccia al posto suo don Carlo e dice che non può rispondere a loro. E poi i guardiesi vanno in chiesa, ci sono grida, lanci di cappello, e mettono il tratto del nuovo re al posto di quello di re Francesco. Erano successe tante cose. Sostenitori di un re, sostenitori dell’altro re. In casa De Risio regnava il terrore: Pietro, Carlo Antenucci, Don Matteo e tre contadini coloni a Campocarrino montavano la guardia notte e giorno armati di fucile…I sei armati mangiavano nella grande cucina col fucile tra le gambe…
Uno di questi era don Matteo…
MARIETTA-Bevi, mangia, tu stai sveglio la notte, e chissà come sei stanco e affamato (ride con Carlo).
FUGNITTA-Ma non ti rendi conto di quello che succede? Come si fa a essere così spensierate? (poi a Don Matteo) Un uomo vecchio, col vostro criterio; andare benedire il ritratto del Re forestiero! E’ stato un tradimento e ve lo faranno pagare, se lo sanno i soldati del re vi acchiappano e vi fucilano come un cane.
DON MATTEO-Si vedrà, si vedrà chi aveva ragione. Passerà la bufera.
FUGNITTA-Passa, passa, è tutto finto: vi siete messo contro i comandamenti di dio; non avete rispettato l’autorità benedetta da Dio.
DON MATTEO (picchiando pugni sul tavolo)-Basta, basta, mi farai dannare. Tormentare così un povero uomo!
FUGNITTA- Dio solo sa se io voglio farvi dannare. Dio solo lo sa.
Pietro e Antonietta sono stati poi circondati dagli uomini del sergentello, un capobanda, sono finiti nelle loro mani e ora li ritroviamo in una capanna…
PIETRO-Fa freddo.
ANTONIETTA-Tanto freddo.
PIETRO-Hai ancora le febbri?
ANTONIETTA-No, in questi ultimi giorni ero guarita.
PIETRO-Perché non sei tornata a casa allora?
ANTONIETTA-Dovevo andare per Natale; prima era impossibile, le strade non erano ancora sicure: neanche Guardia era sicura…Lo zio Giovanni è morto.
PIETRO-E’ morto? Forse è morto anche Don Matteo.
ANTONIETTA-Don Matteo è vivo: è stato lui che mi ha dato tue notizie.
PIETRO-Perché lui?
ANTONIETTA-Gliele ho chieste io.
PIETRO-Tu? Perché? (non risponde) Tu devi ritornare a casa tua: ti riporto io domani.
ANTONIETTA-Ti prendono e ti uccidono, Pietro: andrò sola.
PIETRO-Non importa se mi prendono. Tanto ora che potrei fare? Tu credi che questa vita disperata possa continuare?
ANTONIETTA-Sei stato disgraziato, Pietro.
PIETRO-Doveva andare così, Antonietta: si nasce come io sono nato e si va avanti. Iddio ti maledice in un certo momento e tu non sai perché. Vorrei saperlo perché il Signore mi ha abbandonato. Perché ho dovuto fare tanto male!
ANTONIETTA-Ma tu non hai fatto nulla, Pietro. Tu sei stato tradito come Cristo.
PIETRO-Tu non sai, tu non sai. Per questo parli così. Sono dannato per l’eternità, Antonietta.
ANTONIETTA(gli carezza i capelli fino alla benda)-Sanguina ancora, Pietro. Ti fa male?
PIETRO-No.
ANTONIETTA-Vieni, la stringo (gli attira la testa sul petto; Pietro l’abbraccia).
Ai primi di febbraio, dopo aver passato un mese nelle grotte del Fabo Piccolo, erano ancora insieme. Avevano raggiunto dopo marce, scontri, fatiche, pericoli, il confine con l’Abruzzo ancora una volta, ma del Generale non si sapeva più nulla. Non incontravano più altre bande. Sotto Castiglione per la prima volta ebbero uno scontro con i carabinieri e perdettero due uomini…Una mattina Antonietta toccò le spalle di Pietro leggermente; quando il giovane si volse mormorò una parola, si mise le mani sul grembo e appoggiò la testa alla ruvida scorza con gli occhi rivolti a una lista di cielo che si vedeva tra gli alberi. Pietro si alzò di scatto dubbioso di aver ben compreso la parola; ma vedendola aderire all’albero come se volesse confondere la sua con la vita segreta della pianta, capì che da loro doveva nascere un figlio. Allora camminò per il bosco come un insensato, e rideva quietamente. Da quel momento il pensiero della fuga lo riprese assiduo…Santuccio prese una pallottola in fronte ai primi di marzo sotto Trivento. Con lui altri cinque rimasero sul terreno. Il sergentello a un certo punto: “Siamo rimasti in pochi: una volta o l’altra toccherà anche a noi!” A lui toccò dopo una settimana…
Pietro sta facendo grandi programmi con Antonietta: è il momento di pensare a loro…
PIETRO-(ad Antonietta) Dobbiamo smettere di combattere. I carabinieri pensano che la banda è finita. Camminando di notte ci avviciniamo a Guardialfiera. Io vado dal signor zio a farmi dare la dote di Antonietta. Con quel denaro acquistiamo buoni vestiti e delle merci e poi, facendoci passare per mercanti, raggiungiamo lo Stato del Papa e saremo felici.
Tempo dopo, a casa di don Matteo arriva Pietro,,,
DON MATTEO-Eccoti, eccoti, bravo. Te li ha dati? (Pietro apre il mantello) Ora andiamo. Vengo con te.
Vennero giorni pallidi e sereni; ai margini dei boschi le siepi erano fiorite e i peschi mettevano le prime tenere foglie. Vibrava un’aria cilestrina, leggera, mista dei presagi della primavera e dei brividi delle nevi disciolte. La notte la campagna odorava di viole.
Siamo alla fine di questa storia, una grande storia privata, una vicenda d’amore, in una grande storia di popolo, un altro amore, l’amore per la libertà e per il cambiamento della società. E vedremo come si concluderà questo risorgimento. Io, personaggio dell’Ottocento, dico a voi, del duemila, il vostro risorgimento si è compiuto?
Questo è quanto noi abbiamo ritrascritto prima in “Molise gitano”, uno spettacolo teatrale basato sul confronto tra la cultura molisana e quella andalusa, in un progetto europeo del Liceo “Galanti”, poi nel video realizzato per il “premio Jovine” a Guardialfiera, che abbiamo reimpostato con riferimento alle recenti celebrazioni sull’Unità d’Italia, per ribadire il concetto illustrato nel finale, che cioè l’opera di unificazione e sviluppo non si è ancora compiuta.
Ora vi presentiamo quello che è il racconto più importante dell’”Impero in provincia”, una raccolta di novelle ambientate nella stagione fascista, quando in provincia si viveva la realtà di quella mera apparenza che invece veniva celebrata come “Impero” dal fascismo. Era una realtà di miseria, di povertà, riprodotta bene nella vicenda di “Michele a Guadalajara”, la storia di un barbiere che va alla guerra di Spagna per guadagnare qualcosa, ma scoprirà che combatte dalla parte sbagliata, contro contadini come lui; e il suo ritorno sarà amaro, perché nel frattempo l’amico Angelo, che gli ha consigliato questo trasferimento in Spagna, lo tradisce con la moglie, che aspetta un bambino da lui. Anche in questo caso proiettiamo immagini di una nostra versione teatrale del racconto, tratta da un saggio del laboratorio del liceo “Galanti”, dal titolo “DVD”. Trascriviamo la parte della sceneggiatura inserita in questa lezione…
Il sole declinante di luglio ha, prima del crepuscolo, minuti di tranquilla ferocia; prende di sbieco le stoppie già fervide di calore e fruga le briciole di ombre degli steli recisi. I grilli sono stanchi e tacciono; poche cicale frenetiche stridono nell’aria immobile. Michele è in un angolo d’ ombra e non parla; quattro compagni sono con lui e guardano con gli occhi riarsi le distese di campi gialli, il corso sottile del fiume tra i sassi aridi. La terra ha dato poco grano; i mietitori hanno mietuto alto come per inseguire la spiga leggera, secca e dritta, spuntata su uno stelo troppo lungo, durante il maggio piovoso. La campagna gialla ha sulle aie poco pane e molta paglia per i fuochi notturni d’ agosto.
(Scena di una piazza del paese. Vincenzo e Giuseppe ridono dandosi coi gomiti)
MICHELE - Perché ridete?
VINCENZO - Non si può ridere?
GIUSEPPE - Be’ , mo’ incominciamo; stiamo in pace, per Cristo!
(Angelo passeggia sul breve spiazzo per qualche attimo sempre guardando sfrontato la moglie di Michele)
ANGELO - La casa é troppo bassa; lo so che non avevi più soldi. Ma quando uno si mette a fare le cose…io quando mi ci metto...
MICHELE - Tu parli così perché ti sei arricchito nella guerra d’ Abissinia!
VINCENZO - Ha dodicimila lire.
ANGELO - Così succede quando uno è buono a fare il soldato.
GIUSEPPE - Hai indovinato; indovina e fatti ricco, io sono stato in America tre volte e ho riportato in tutto duemila lire. Allora anche in America c’ erano pochi soldi; poi ho fatto la guerra contro l’ Austria e ci davano mezza lira al giorno. Ai miei tempi non c’ erano guerre ricche.
ANGELO - Tu potevi venire, e ti arricchivi anche tu. Perché non sei venuto? Perché?
GIUSEPPE - Ho sbagliato; a te il diavolo ti aiuta, indovini sempre.
ANGELO - Il fatto è che io capisco le cose e sono svelto; ho fatto il soldato da permanente. Quando mi sono presentato, hanno guardato le carte e neanche mi hanno fatto fiatare. Mi hanno detto solo: quando vuoi partire? E non ho voluto gradi. Troppe responsabilità, a me non piace la responsabilità. Ma lui…(rivolgendosi a Michele) lui non ha fatto…
MICHELE - A te chi ti dice niente. (alzandosi minaccioso)
ANGELO - (rivolgendosi al balcone e ai compagni) Poi dice che sono io, non do fastidio a nessuno, io; ragiono; mi piace di ragionare perché ho due dita di cervello. E se gli altri sono stupidi e non sanno fare i fatti loro, io che c’ entro?
MICHELE - Tu parli sempre con me. Chi ti dice nulla? Mi occupo di te, io?
(Angelo stringe i pugni, Michele sa che sarà percosso)
ROSALBA - (Si sporge alla ringhiera) Che fate, belli figlioli?
GIUSEPPE - (Prende il calzolaio per il petto e lo scuote) Sangue di Giuda, non si può stare un momento in pace.
(D’un tratto il balcone si è chiuso e Rosalba è scomparsa. Si voltano e vedono il vano divenuto buio all’improvviso)
VINCENZO – Cala il sole
GIUSEPPE – Litigare, sempre litigare, che mala gente siamo
(Angelo arrotola con calmo gesto una sigaretta in un lembo di carta di giornale e l’accende. Se la mette in bocca e aspira con forza per provare se tira)
VINCENZO – Dammi una fumata, Angelo
ANGELO - Non ho più tabacco, compratevelo il tabacco
GIUSEPPE – Daglielo, Angelo, che è per te un pizzico di tabacco?
VINCENZO – Non è niente, tu sei ricco
(il calzolaio si tira con un gesto vanitoso i calzoni)
ANGELO – Io faccio bene a tutti (dà un po’ di tabacco agli altri due. Tutti accendono e fumano golosamente)
GIUSEPPE – Si è perduta la sementa dei soldi
ANGELO – Ci sono tanti soldi per il mondo. Ma qui non arrivano. Non c’è commercio. Qui finiscono tutte le strade. Bisogna stare nei posti dove la gente passa e ripassa. I soldi sono tondi, come le ruote.(poi rivolto con tono bonario a Michele) La gente che viaggia si fa la barba; i viaggiatori che vanno con i camion e le automobili hanno sempre la barba fatta. Se tu avessi un bel salone in una strada di passaggio faresti tante barbe; e in due o tre anni pagheresti i debiti che hai fatto per la casa. Seimila lire in un paese di commercio; si fa presto a fare seimila lire con le barbe. Ma qui, qui la casa te la vendi, per pagare
GIUSEPPE – Ci vorrebbe un’altra guerra ricca, come la tua. Ma sono fortune che capitano una volta.
ANGELO – Ma la guerra c’è. Il fatto è che questo non è un paese di commercio e nessuno ne sa niente.
MICHELE – E’ bugia, se ci fosse una guerra tutti lo saprebbero
ANGELO – Se te lo dico io; c’è la guerra ma non si deve dire, ecco perché nessuno lo sa. Ma io sono stato a Larino; là c’è gente che parte
MICHELE – Quanto danno al giorno?
ANGELO – Questo non lo so. Non è come l’Abissinia; è una guerra più vicina, ma mi hanno detto che la paga è buona…ma tanto a te che ti serve, tu sei troppo piccolo, non ti prendono
VINCENZO – Io ho visto in quell’altra guerra uomini più piccoli di lui; uno che era alto così l’hanno fatto caporale
MICHELE – E’ quello che dico io, che c’entra la statura, tutto è questione di buona volontà (fumavano lentamente e si godevano il piccolo vento di levante che veniva con il crepuscolo dalla valle del fiume)
GIUSEPPE – Ci vorrebbe un boccale di vino
VINCENZO – Costa una lira. Chi ci dà una lira?
MICHELE – Se potessi fare una barba guadagnerei una lira
GIUSEPPE – Angelo, perché non ti fai la barba?
Angelo – Io la barba me la faccio la domenica, e oggi è venerdì
MICHELE – Te la faccio bene; ti faccio due contro peli e ti dura nove giorni; te lo giuro
ANGELO – Mi dura, dici
MICHELE – Ti dura e poi ti costa meno perché un bicchiere lo bevi anche tu. Ci guadagni
ANGELO – Già; ci guadagno. Ma non importa; ti do la lira oggi e la barba me la fai domenica. Domenica mi cambio e mi piace di avere la faccia liscia (Mandarono a prendere il vino; si versarono un bicchiere per uno e cominciarono a berlo lentamente)
VINCENZO – Che allegria il vino, ma ce ne vorrebbe tanto (Angelo sorbiva adagio e guardava il balcone; poi incominciò a canticchiare)
ANGELO – Canta, canta non ti stancare / in Abissinia dobbiamo andare…
(Si aprì il balcone nella pallida aria della sera e una voce di donna squillante riprese)
ROSALBA – Tutte le finestre si sono spalancate / tutte le ragazze si sono innamorate…
ANGELO – Io so come si fa a partire per la Spagna. Stasera dovrebbe arrivare Don Primiano da Larino
MICHELE – Don Primiano il seniore?
ANGELO – Me l’hanno detto ieri a Larino, ti faccio parlare e lui ti fa partire; stai là un anno o due e ti levi tutti i debiti. Se vendi la casa, Rosalba muore di rabbia.
(Tempo dopo, sul fronte della guerra cibvile)
GIUSEPPE – Tutti i morti di questa guerra li portiamo sulla coscienza; è gente che non ci ha fatto nulla…li hanno ingannati; questi vorrebbero lavorare in pace a casa loro; da tutti i paesi del mondo sono venuti ad aiutarli…
MICHELE – Io ho famiglia; ero carico di debiti…
GIUSEPPE – Michele, ammazzano i figli di mamma per trenta lire al giorno. Tu dici la coscienza, tu hai paura dell’Inferno; Cristo, non ho paura dell’inferno ma ho perduto la pace dell’anima. Io me ne vado, con lui me ne vado
MICHELE – Dove andate?
VINCENZO – Andiamo da quell’altra parte
MICHELE – Voi andate e forse mi ammazzerete; neanch’io vi ho fatto niente
GIUSEPPE – Per questo dovresti venire, tutti i bravi compagni come te dovrebbero venire. Adesso ho capito tutto, tutto ho capito
MICHELE – Anch’io ho capito, ma ho moglie e figli; e vorrei tornare a casa. Vedi, mi scrive Rosalba; veramente mi fa scrivere da Angelo che sa scrivere bene: i debiti sono quasi pagati. Tra un mese marco visita. Me ne vado a casa. Ecco le lettere, le porto sempre con me. Non ti ammazzo io, Peppe; adesso sparo sempre in aria
(Buio. Luce sulla prima scena-dintorni di Guardialfiera)
E’ strano ripercorrere strade familiari, odorare un’aria amica avendo lasciato una parte del proprio corpo in un luogo lontanissimo.
A Michele hanno amputato un braccio all’altezza della spalla, ha la manica destra che pesca nella tasca della giacca, a fondo, come per frugarla. Nel suo piccolo corpo un braccio doveva pesare molto perché ora ha la buffa andatura sbilenca; è come se il braccio rimasto voglia trascinare il resto del corpo. Dolce aria che non si abbraccia, che Michele taglia dolorosamente di sbieco. Eppure è leggerissima e odorosa e la strada gli è familiare tanto che Michele può abbandonarsi ai suoi pensieri…Raggiunge il punto dove incomincia a vedersi Guardialfiera, il punto dove era scomparsa allo sguardo due anni prima... Il fiume è apparso alla svolta ed è gonfio delle prime piogge.
Il primo a venirgli incontro è Angelo calzolaio che gli batte sulla spalla come se volesse impadronirsi ancora di lui. Angelo parla, gli racconta di Rosalba, e dei bambini, specie di quello che è nato durante la sua assenza, lui gli è amico, ha fatto tante cose per lui.
ANGELO – Un braccio, che cos’è un braccio? Perdi un braccio, pare una disgrazia e invece può essere una fortuna. E’ il governo che ti ha mandato in guerra? Il governo ti darà da campare. Campi e non lavori più (agli altri) Gli daranno la pensione
ROSALBA – Non fa niente, Michele
ANGELO – Vuoi andare a vedere il salone, eh Michele? Puoi prendere un garzone se proprio vuoi lavorare; lui insapona…ho conosciuto un barbiere con una mano sola
(Michele si fermò, aveva i pomelli rossi e il fiato corto feroce, cercava a furia nella tasca il coltello)
ANGELO – Be’ Michele…
MICHELE – Tu hai fatto tutto, tu. Tutto, non è vero? Vattene, schifoso (Angelo fugge via. Buio)
Questa è la conclusione amara di “Michele a Guadalajara”. Si sfiora la tragedia. E questa vicenda di povertà viene confermata in altri due racconti di Jovine. Uno è “Il cappello piumato”, in cui si parla di emigrazione. Un marito lascia la moglie per andare in America e le manda una lettera solo dopo tanti anni, quando non sta bene. E lei sente il dovere di raggiungerlo, partendo appunto con questo ridicolo cappello. Percorre tanta acqua per raggiungerlo. Anche qui abbiamo un video realizzato con gli studenti del laboratorio, di cui trascriviamo la sceneggiatura, per la parte inserita nella lezione …
Flashback: il marito in stazione con le valigie; triste e amaro addio.
Inizia lettera (voce del marito): “Cara Concetta, non ho passato un minuto senza pensarti e volerti in tutto questo tempo. Venti anni fa non immaginavo che sarebbe andata a finire così. Con te ho sbagliato; volevo renderti felice e invece ti ho fatto solo soffrire. Qui la vita è migliore e non riesco a perdonarmi di averti lasciato lì a vivere in miseria. Dovevo portarti con me. Con questa lettera ti invio i soldi necessari per il viaggio. Finalmente potremo rivederci! Perdonami se in questi anni non ti ho dato mie notizie. Capirò se non vorrai più vedermi ma sappi che per tutto questo tempo non ho fatto altro che aspettare questo momento. Spero di rivederti presto. Ti aspetto, tuo Matteo.”
CONCETTA- Povero figlio, chissà quanti patimenti in America.
Inizia a piangere. Arriva la padrona a consolarla.
DONNA 2- Tu devi andare Concetta, ti ha mandato i soldi del viaggio e 10.000 lire.
MADDALENA: (vanitosamente) E’ diventato ricco, Matteo, mio fratello. E’ della famiglia Magno e non gli manca il giudizio. Tu dicevi: mi bastona, si ubriaca, ha sempre da fare con i carabinieri. Questo voleva dire che era un uomo svelto. E solo gli uomini svelti diventano ricchi.
DONNA 3- Sì, è vero…
DONNA 4- Maddalena ha ragione!
DONNA 2- Vuole farsi perdonare… I tempi sono cambiati: hai la possibilità di essere una donna nuova. La tua miseria qui è finita.
Iniziano a ricordare la povertà di Concetta, come per il duolo di un morto.
DONNA 1- Pensa a quando nevicava, con il fascio delle frasche in testa su per la costa di San Nazario; e quando pioveva, a raccogliere ulive impastate con la creta; e il sole di luglio, con la gola arsa…
DONNA 3- Sei vecchia, hai la faccia distrutta dal sole e dall’acqua, Concetta.
(…)Dopo alcuni anni, al suo ritorno, racconta.
CONCETTA- Arrivata in America, al porto ho trovato un amico di mio marito che mi ha detto che Matteo era malato da parecchi mesi; con lui ho attraversato in treno il mare d’erba che mi separava da mio marito. La masseria era del suo amico; un amico che era come un fratello; si spartivano i sogni, tanto si volevano bene. I medici avevano detto a Matteo che la malattia era lunga. Poteva guarire solo se una persona lo avesse assistito giorno e notte. L’ho fatto. Lui mi diceva che era debole e vecchio e aveva fatto tanti peccati. Aveva la natura che gli aveva dato Cristo e le mani gli andavano al coltello prima che potesse parlare. Era stato due volte in galera. E la galera è stretta anche in America e ti dimentichi di tutto il mondo; perché nessuno si ricorda di te. Sono stata notte e giorno accanto a lui, fino alla sua morte e sono contenta di avergli chiuso gli occhi.
E dunque storie di attaccamento, tenace, assoluto sacrificio delle donne molisane, che saranno protagoniste anche nelle “Terre del Sacramento”, quando compongono quel coro di lamento per la morte di Luca Marano, l’eroe della resistenza contro i proprietari terrieri, che prendono in giro i “cafoni”. Luca è il difensore dei diritti dei contadini, come Berardo Viola nel romanzo di Silone, “Fontamara”.
Ma sentiamo cosa accade ad un’altra coppia di molisani in un racconto inedito di Jovine, “Il libro del comando”, dove si immagina che il diavolo possa avere scritto un libro che consenta, a chi lo sappia leggere, di riscattare la sua vita da una realtà di povertà e di miseria. Anche in questo caso proiettiamo un video realizzato sempre per il premio “Jovine”, di cui trascriviamo la sceneggiatura, per la parte inserita nella lezione…
Giuseppe e Berenice abitavano l’ultima casa del villaggio posta sullo sprone di roccia dominante la costa che precipitava nel vallone della Segna. Sull’uscio incominciava la strada che digradava a valle con cento giri prudenti, disseminata di sassi bianchi, orlata di magri rovi e di cespi di lentisco. Il sentiero durante l’inverno era solitario. Nel fondo il vallone della Segna, stretto in una gola ripida, fuggiva gonfio di acque torbide che impedivano il passo a quelli che avrebbero voluto raggiungere la Camarga. D’estate il ruscello era domato dal sole e nel suo greto secco, spaccato dall’arsura, saettavano i ramarri verdastri in cerca di una stilla d’acqua. La strada all’alba e al tramonto si popolava di capre e di pastori. La casa di Berenice e di Giuseppe sentiva questo vuoto che l’abbracciava da tre lati ed era facile preda di venti e della grandine e di tutte le altre furie del cielo. I due contadini erano poverissimi. Berenice faceva molti figli e Giuseppe stentava a nutrirli con le sue capre. La sera, massime d’inverno, quando i figli dormivano, tutto un groviglio di tenere membra nell’unico letto, Giuseppe e Berenice ragionavano della loro miseria…
BERENICE: Giusè perché siamo sempre soli? Nessuno ci viene mai a trovare...
GIUSEPPE: E chi deve venirci a trovare? Le altre case del villaggio sono troppo lontane ed io non ho parenti. Benedetto quel prete che mi ha preso dalle braccia di mia madre morente, quando ero solo un neonato; era povero, e non poteva darmi nulla ma mi ha cresciuto lo stesso, mi ha insegnato a leggere e scrivere. Noi gente di questa terra siamo in tanti e tutti con i nostri bisogni; i poveri, mia Beatrice, continuano a crescere come la gramigna. E il Signore non può aiutarli tutti, lui è povero. Il Diavolo la nostra disgrazia, lui è ricchissimo e tutti lo chiamano a sé. Devi sapere, mia cara Beatrice, che un giorno il Diavolo portò Gesù Cristo sul monte e gli fece vedere terre e case senza fine, e lui voleva dargliele; ma Gesù non le volle.
BERENICE: Perché non le volle?
GIUSEPPE: Non le volle perché sarebbe diventato ricco, e così i poveri non l'avrebbero più amato.
BERENICE: Questa casa sempre sbattuta dal vento, nemmeno la fiamma della lucerna gli resiste.
Qui si udì il vento venire dal vallone della Segna e gemere sulle imposte della finestra. La fiamma della lucerna minacciò di spegnersi. Giuseppe e Berenice seguirono inquieti la lotta della fiamma con il fiato del vento. Poi, quando il sibilo gemente si quietò e le nuvole ritornarono placate agli angoli lontani, Giuseppe aggiunse:
BERENICE: Dov'è il Diavolo?
GIUSEPPE: In ogni luogo, cammina sul vento e sulla tempesta. C'è un libro per chiamarlo! Una volta, tanti anni fa, venne un vagabondo a casa di don Cireneo; era di notte ed andai ad aprirgli io. Volle che svegliassi don Cireneo. Aveva la faccia bianca come un lenzuolo e la voce di uno che sta per morire; stette tanto tempo chiuso con don Cireneo e ripartì a punta di giorno.
BERENICE: Che fecero tutto quel tempo?
GIUSEPPE: Io vidi il giorno dopo in mezzo alla cenere dei pezzi di carta bruciati a metà. Era il libro del comando; l'aveva bruciato don Cireneo.
BERENICE: Signore liberaci! (segnandosi)
GIUSEPPE: Era vecchio il vagabondo e forse aveva paura di morire.
(…)Giuseppe incominciò ad incitare gli animali per seguire tutta quella gente. Quando si trovò in mezzo al tratturo voleva tornare indietro ma le capre si imbrancarono con altre capre di passo. Uno disse: “Vieni alla fiera, se vuoi vendere le tue capre. Hanno solo la pelle, ma è buona per farci i tamburi. Quello che aveva parlato era un vecchio zingaro che fece ridere tutti quelli che erano con lui. Rise anche Giuseppe, il quale era contento di trovarsi dopo tanto tempo con gente così allegra. E continuò a camminare, chiamando ogni tanto le sue capre per nome, perché non si confondessero con tutte le altre. Arrivato alla fiera, si fermò in un angolo tra un branco di buoi e uno di cavalli e attese. Di fronte aveva un giocatore di ventiquattro. Una sonnambula con gli occhi chiusi indovinava tutte le carte e leggeva il destino degli uomini e delle donne. Poi ogni tanto si svegliava con un grido doloroso, e si guardava intorno senza capire il luogo nel quale si trovava. Quando gridava così, la gente fuggiva impaurita, ma Giuseppe non aveva paura. Al tramonto anzi, dopo avere venduto una delle sue capre, andò prima a bere un boccale di vino per farsi coraggio, poi si avvicinò alla sonnambula con una lira in mano e le chiese il libro del comando. La sonnambula lo squadrò dal capo alle piante, poi si guardò intorno, infine aprì una cassetta posta per terra e ne trasse un libro con una copertina colorata dove c’era un uomo vestito di nero con una bacchetta in mano e glielo diede.
Giuseppe parla con Berenice della sua giornata al ritorno dal pascolo
BERENICE: Cos'hai tra le braccia? Cos'è quel libro? (lo tocca)
GIUSEPPE: Non toccarlo Berenice! (entra il vento, si spegne la luce, si sente il tuono)
Giuseppe cercò a tentoni sulla tavola il libro del comando ma non riusciva a trovarlo. I figli intanto si erano alzati e correvano nudi per la stanza cercando la madre. Giuseppe gridava:” Luce! Luce!” E arrivava la luce ce di zolfo dell’uragano. Il pianto dei bimbi era coperto dal fragore del tuono.
BERENICE: Aiuto Giuseppe!! Cosa mi stai facendo? Cos'è questo rumore? La luce dov'è? Brucialo Giuseppe, brucialo! E' il demonio!
GIUSEPPE: Lo sto cercando Berenice! Non vedo nulla! Luce! Luce!
BERENICE: (lo trova) Lo sento sotto di me, è ora di finirla, il fuoco lo finirà per noi! (Butta il libro nel fuoco).
GIUSEPPE: Andiamo Berenice cara, questo libro è stato la nostra pena e la nostra speranza. (Guarda fuori dalla finestra).
BERENICE: Piove!
E si intese una buona pioggia che scrosciava sulla terra assetata.
Queste dunque le tristi vicissitudini di un popolo raccontate da Francesco Jovine, che nell’ultima parte della sua vita ha aderito poi alla lotta politica, si è iscritto al partito comunista, ha collaborato a “Rinascita”, è morto, come abbiamo detto, nel 1950, concludendo il suo romanzo “Le terre del Sacramento”.
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