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FOSCOLO: Ortis, Sonetti




Antologia - 19^ Lezione

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https://youtu.be/ualfuJjiV7w
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I grandi della letteratura italiana: Ugo Foscolo
FOSCOLO
DELL’ORIGINE E DELL’UFFICIO DELLA LETTERATURA, SONETTI,  ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS
 
 Diciannovesima lezione del secondo anno di Antologia. Con me Barbara. L’ultima volta avevamo presentato Poe e Melville. Avevamo allargato i confini del romanticismo, dalla Germania all’Inghilterra, all’Italia, poi in America. Ora ritorniamo in Italia e vi presentiamo Ugo Foscolo. Il vero grande romantico in Italia è stato proprio lui, perché Manzoni e Leopardi hanno molto che non convince sotto quell’aspetto. E’ anche vero che Foscolo non è stato solo un romantico “ante litteram”, ma anche un neoclassico, e quindi rappresenta bene il passaggio che abbiamo cercato di descrivere, dal gusto neoclassico al gusto romantico. O, meglio ancora, quel coacervo, quell’insieme di movimenti dell’animo che hanno determinato, in fase preromantica, lo sviluppo della poetica romantica in senso stretto.
Foscolo ha attraversato tutte queste manifestazioni, anche quella dello Sturm und Drang, anche se non gli appartiene pienamente, in certi impulsi del suo maggiore protagonista, Jacopo Ortis, per influenza di Goethe, perché sappiamo tutti che “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” sono forse una sorta di mezzo plagio dei “Dolori de giovane Werther”: romanzo epistolare, con la personalità di uno che rischia il suicidio e con questa anima dello Sturm und Drang, che in Goethe è evidentissima, ma in Foscolo  sembra essere un riflesso. L’Ortis comunque apre il romanticismo in Italia.
Prima di esaminare passo per passo la parabola di  Foscolo, vi voglio leggere quanto dice ai suoi studenti nel momento in cui deve preparare un corso di letteratura che poi non terrà, a Pavia: è l’orazione “Dell’origine e dell’ufficio della letteratura”. Vi leggo due passi  in cui esprime quello che intende del rapporto tra educatore e studente:
 
UGO FOSCOLO, DELL’ORIGINE E DELL’UFFICIO DELLA LETTERATURA
Il che si osserva negli uomini muti, i quali non conseguono né ricchezza né ordine di pensieri che non siano richiesti dalle supreme necessità della vita, se non quando ai segni della parola articolata riescano a supplire co’ segni della parola scritta. E un segno solo della parola fa rivivere l’immagine tramandata altre volte da’ sensi e trascurata per lunga età nella mente; un segno solo eccita la memoria a ragionare d’uomini, di cose, di tempi che pareano sepolti nella notte ove tace il passato. Il cuore domanda sempre o che i suoi piaceri siano accresciuti, o che i suoi dolori siano compianti; domanda di agitarsi e di agitare, perché sente che il moto sta nella vita e la tranquillità nella morte; e trova unico aiuto nella parola, e la riscalda de’ suoi desideri, e la adorna delle sue speranze, e fa che altri tremi al suo timore e pianga alle sue lagrime, affetti tutti che senza questo sfogo proromperebbero in moti ferini e in gemito disperato.
 
Prima considerazione, quindi: la vita è tale se ci si agita, se ci si muove, altrimenti  è come essere morti. E’ un tema goethiano. In fondo Werther lottava contro una società troppo piena di regole, lo abbiamo anche spiegato. E poi ancora…
 
E la fantasia del mortale, irrequieto e credulo alle lusinghe di una felicità ch’ei segue accostandosi di passo in passo al sepolcro, la fantasia, traendo dai secreti della memoria le larve degli oggetti, e rianimandole con le passioni del cuore, abbellisce le cose che si sono ammirate ed amate; rappresenta piaceri perduti che si sospirano, offre alla speranza e alla previdenza i beni e i mali trasparenti nell’avvenire; moltiplica ad un tempo le sembianze e le forme che la natura consente alla imitazione dell’uomo; tenta di mirare oltre il velo che ravvolge il creato;
 
Ecco il tema, la metafora del velo, che Foscolo utilizzerà nelle “Grazie”, e comunque l’idea della poesia che deve incorniciare, arredare, ornare, elaborare e anche ingrandire gli effetti dei sentimenti e delle passioni umane…
 
e quasi per compensare l’umano genere dei destini che lo condannano servo perpetuo ai prestigi dell’opinione ed alla clava della forza, crea le deità del bello, del vero, del giusto, e le adora; crea le grazie, e le accarezza; elude le leggi della morte, e la interroga e interpreta  il suo freddo silenzio; precorre le ali del tempo e al fuggitivo attimo presente congiunge lo spazio di secoli e secoli ed aspira all’eternità;
 
All’inizio di questa considerazione ha detto che quest’opera del poeta è quasi una consolazione, un conforto, rispetto ai mille colpi che dobbiamo subire nella nostra esistenza per la crudeltà della forza e del potere. Temi alfieriani che ci dipingono appunto un Foscolo romantico…
 
sdegna la terra, vola oltre le dighe dell’oceano, oltre le fiamme del sole, edifica regioni celesti, e vi colloca l’uomo e gli dice: “Tu passeggerai sovra le stelle”: così lo illude, e gli fa obbliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno; e lo illude sempre con l’armonia e con l’incantesimo della parola.
 
Quindi la poesia rende eterno l’uomo, lo mette al di sopra delle sue sciagure e gli dà quell’armonia che non c’è nella realtà. In questo rientra il neoclassicismo foscoliano: la poesia come armonia. L’altra considerazione che vi presentiamo, sempre in questa prolusione per il corso di letteratura, è più storicosociale…
 
O Italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime degne di essere liberate dalla obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri ed a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri. Io vi esorto alle storie, perché angusta è l’arena degli oratori; e chi omai può contendervi la poetica palma? Ma nelle  storie, tutta si spiegala nobiltà dello stile, tutti gli affetti delle virtù, tutto l’incanto della poesia, tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i benemeriti dell’ italiano sapere. Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre? e che speranze, che ricompense gli apparecchiate? e come nell’agonia della morte lo consolerà il pensiero di rivivere almeno nei petti de’ suoi cittadini, se vede che la storia in Italia non tramandi i nobili fatti alla fede delle venture generazioni?
Vedete quanti concetti tipicamente foscoliani, che ritroveremo, sono in queste parole. L’idea intanto che bisogna rivisitare la storia, perché nella storia ci sono il nostro passato, la nostra cultura, le nostre origini. Questo tema vichiano, anche di Cuoco, nel suo “Platone in Italia”, a cui abbiamo già accennato, poi si colora di un’altra dimensione, quella del rapporto con la società, con i problemi della vita quotidiana in questo mondo e con la morte. Il recupero della storia e il recupero attraverso la poesia di certi valori sono consolazione per la perdita della vita, non solo, ma riscattano anche la nostra esistenza al di là della morte…
Forse la sola poesia e la magnificenza del panegirico potranno rimunerar degnamente il principe che vi dà leggi e milizia e compiacenza del nome italiano? Oh come all’esaltazioni  conche Plinio Secondo si studia di celebrare Traiano, oh come il saggio sorride! ma quando legge le poche sentenze di Tacito, adora la sublime anima di Traiano, e giustifica quelle vittorie che assoggettarono i popoli all’impero del più magnanimo tra i successori di Cesare.

 
La poesia è il valore che eterna tutto e tutto rielabora e riordina e riscatta e nobilita.
Foscolo, sappiamo tutti, era di madre greca, Diamantina Spathis. Il padre, veneziano, la conobbe viaggiando nell’adriatico. Nacque a Zante, che lui chiama Zacinto. Mentre raccontiamo la sua vita non possiamo non partire da qui, dalla sua terra nativa, che abbandona quando è ancora adolescente, per trasferirsi a Venezia, dopo la morte del padre. Vediamo come ci descrive la sua isola. leggi Barbara…
 
A ZACINTO
   Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
   Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
   cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
   Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

 
In questo che è uno dei suoi grandi  sonetti, ci dice della visione classica che ha della sua terra greca d’origine, rivisita il mito, come vedete, e immagina un parallelo tra se stesso e Ulisse. Tutti e due esuli dalla propria isola, però con una differenza. Che Ulisse torna nella sua “petrosa” Itaca, anche se dopo tanti anni, secondo il mito omerico, mentre lui pensa di dover morire probabilmente fuori della patria. E in questo caso, forse non tutti lo dicono, il morire fuori della patria per Foscolo non significa tanto e soltanto morire lontano dall’Italia. In questo caso sarebbe quasi una profezia, perché doveva immaginare che sarebbe morto in Inghilterra, dove sarebbe stato sepolto a Turnham Green. Ma vuole dire invece, forse, e ancora di più, che morire in Italia significa morire in terra straniera, se l’Italia non è nostra, non è libera.
Poi c’è l’altro concetto: Tu non avrai altro che il canto del figlio, o materna mia terra. Cioè resterà di Foscolo la sua opera, la sua poesia. E il riferimento alla madre lo riprendiamo nel carme “In morte del fratello Giovanni”: è una madre sofferente, perché è morto il fratello di Foscolo, suicida per debiti. Leggi Barbara…
 
IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI
   Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
   La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.
   Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quïete.
   Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.

 
E in Inghilterra chiuderà la sua vita, in modo anche discutibile, perché si indebiterà nel gioco, si farà mantenere o si sosterrà un poco lui stesso, con la letteratura, le  pubblicazioni, le lezioni. Certo è una vita mortificante quella che fa nell’ultimo periodo.
Abbiamo raccontato così in grandi linee la vita di Foscolo, ma dobbiamo riprenderla dall’inizio, dalle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”. Dobbiamo riprendere questo personaggio che rappresenta il Foscolo giovane, che è l’incarnazione dei suoi ideali, quelli napoleonici. Eravamo alla fine del Settecento quando Napoleone portava entusiasmo in Italia. Le sue campagne spingono gli italiani a ribellarsi e a creare diverse esperienze repubblicane, la veneziana, la romana ecc. Quando arriva il turno di Venezia, Foscolo si illude che sia arrivata la libertà per la sua patria, ma in realtà sarà lo stesso Napoleone a deluderlo con il trattato di Campoformio, con il quale nel 1797 cede all’Austria proprio Venezia, per tenersi la Lombardia e Milano. Foscolo per diversi mesi coverà rancore nei confronti di Napoleone, però poi, vedendosi circondato da eventi irreparabili, non trovando altro punto di riferimento, tornerà ad avvicinarsi a questo grande condottiero nel momento delle sue campagne in Europa, si arruolerà e appunto, nei primi anni, conoscerà questa donna inglese da cui nascerà una figlia, che lo ospiterà poi nell’ultima parte della sua vita.
“Le ultime lettere di Jacopo Ortis” raccontano di questa grandissima delusione politica di Jacopo, che incarna Ugo, dopo il tradimento della cessione di Venezia all’Austria con il trattato di Campoformio. Il romanzo è in forma epistolare. A Lorenzo Alderani Jacopo scrive le sue lettere, che una dopo l’altra si allineano a disegnare un percorso verso il suicidio.
L’altro grande dramma di Jacopo è una delusione esistenziale e amorosa nello stesso tempo: il suo amore per Teresa. Che probabilmente nel suo nome ripete quello di Teresa Pichler, sposa di Vincenzo Monti, poeta che Foscolo non stimava, odiava addirittura, perché era la sua antitesi: lo considerava un voltagabbana, uno che seguiva il potere del momento. E tra l’altro, rivedendo nella Teresa dell’Ortis Teresa Pichler, lui immagina che soffra perché ha dovuto sposare non lo Jacopo di cui è innamorata, ma Odoardo, il borghese caratterizzato dall’inerte tranquillità di cui si diceva nell’orazione di Pavia, che significava vivere da morti. Odoardo è proprio quello che conduce un’esistenza comoda, naturalmente opposto all’esaltazione affettiva e sentimentale di Jacopo, che invece è un impulsivo, pieno di vita, di passione, di voglia di cambiare, trasformare il mondo.
A questo proposito bisogna aggiungere che c’è un’evoluzione nel personaggio di Odoardo fra le diverse edizioni del romanzo. Nella prima edizione non ha gli stessi ideali di Jacopo, però non è l’anti Ortis, non è così caratterizzato negativamente. Nei tre, quattro anni successivi che dividono la prima e la seconda edizione, a cavallo dell’Ottocento, Odoardo vede approfondire i suoi difetti e diventa proprio il borghese che pensa soltanto ai suoi interessi, il codardo, l’infingardo. Perché avviene questo? Perché in quegli stessi anni, ricorderai quello che dicevo poco fa, Foscolo, deluso da Napoleone, poi gli si riavvicina perché non trova intorno a sé di meglio: appunto sperimenta i caratteri negativi della borghesia, della gente istruita, colta, benestante o meno che lo circonda, che non riesce ad entusiasmarsi a nessuna idea. E Odoardo diventa per lui il prototipo di tutta questa gente imbelle, che non reagisce alla situazione, che soprattutto è quella della patria sottomessa, che lui vorrebbe invece più attiva. E diventa l’anti Ortis.
Ma la terza delusione, collegata a questa, è l’amore: Teresa, sposa di Odoardo, non può unirsi con lui. E Teresa si veste di classicità, nel senso che incarna l’ideale della bellezza armoniosa. C’è l’episodio del bacio, famoso. Sono pagine che non leggiamo. La bellezza serenatrice, neoclassica, alla Winckelmann, la bellezza levigata, tersa, pura, vengono rappresentate nel ritratto che Foscolo fa fare a Jacopo di Teresa, in una lettera all’amico Lorenzo Alderani.
L’altro grande motivo, quello risorgimentale, viene descritto nella lettera da Ventimiglia, quando dice all’amico che arrivato al confine, guardando verso la sua patria, non può non considerare che questa patria è mortificata dalla dominazione straniera di oggi, che segue tutte le dominazioni precedenti, e meriterebbe un riscatto.
Jacopo è anche quello che ha in Parini il suo maestro di vita, integerrimo, con grande senso del dovere. Infatti Foscolo immagina che Jacopo incontri Parini e gli confessi tutte le sue ansie, tutti i motivi che lo fanno restare disamorato della vita; e Parini gli dice di non accanirsi, di non combattere più di tanto, perché questa società non merita i suoi moti dell’animo. Jacopo arriverà poi al suicidio.
Ora con te, Barbara, voglio ripercorrere l’altro grande sonetto di Foscolo, nel quale mettiamo insieme tutto quello che abbiamo detto in questa prima lezione, cioè il combinarsi dell’animosità, vitalità, sentimentalità, passionalità con il desiderio di pace e di armonia. Qual è?
BARBARA: Alla sera
Brava. Non lo leggi…
BARBARA: Non lo leggo, lo recito…
 
ALLA SERA
   Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago a me sí cara vieni,
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
   E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
   Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme
   Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

 
Ed ecco quindi la conclusione della nostra lezione. Lo spirito guerriero che ruggisce nell’animo di Foscolo viene rasserenato dall’immagine della pace che gli richiama la sera. Naturalmente è una grande metafora, appunto del soffio vitale, la freschezza, la rigenerazione, il ristoro che può dare la forma poetica alle nostre passioni, ai nostri mille motivi per dannarci l’animo, di cui avrebbe parlato negli anni successivi in quel discorso per gli studenti di Pavia: la poesia che ristora, che conforta delle sciagure umane.
E con questo riferimento vi lasciamo per la prossima lezione, sempre su Foscolo, la nostra poetessa pseudo alunna Barbara e il nostro poeta pseudo professore.
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