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EUGENIO CIRESE (1884-1955) Un Intellettuale dimenticato

EUGENIO CIRESE  (1884-1955)
Un Intellettuale dimenticato
 
 Nell’estate scorsa, particolarmente torrida per una città come Campobasso, tra tante avvincenti iniziative e stimolanti interessi, mi sono imbattuta in un personalità di grande rilievo, scrittore e poeta di origini molisane che, mio malgrado, non conoscevo. Mi riferisco a Eugenio Cirese, uno dei più grandi studiosi della letteratura dialettale, del folclore e delle tradizioni molisane, che mi ha attratta per la grande sensibilità e passione con cui ha compiuto ricerche omnicomprensive sulla sua terra, tanto da procurarsi le attenzioni di scrittori e poeti come Eugenio Montale, Carlo Bo (uno dei massimi esperti in critica letteraria) che disse di lui: «un animo sensibile e toccato da una vena di puro canto». Della sua poesia si sono interessati personaggi importanti come Giulio Carlo Argan, Francesco Jovine, D. Purificato, e da ultimi Fortini, Petronio, Sciascia e Pier Paolo Pasolini che, partendo dall'opera di Eugenio Cirese per il «Canzoniere italiano», l’ha così definita: «Disegnata con tratti il cui valore assoluto nessun volume di etnologia o sociologia potrebbe mai eguagliare». 
 
 
Di lui ha scritto un altro grande poeta e scrittore molisano recentemente scomparso, Ugo D’Ugo, evidenziandone la ricchissima produzione poetica (Sciure de Fratte, Ru cantone de la Fata, Suspire e risatelle, Tempo d’allora, Lucelecabelle), come anche la raccolta di Canti Popolari e sonetti in dialetto molisano, la rivista di storia e letteratura popolare La Lapa (1953), che ha avuto subito respiro internazionale (è stata la prima a pubblicare in italiano uno scritto di Claude Levi-Strauss) ma che non per questo ha perso le radici dialettali e molisane. L’articolo di apertura, quasi un programma, si chiude con una frase che tra parentesi dice: «Sono tornato quest’anno dopo molto tempo al mio paese sul fiume. E il fiume e i tramonti stanchi e quel castello che distrugge poco a poco se stesso e il passato lanciando nel Biferno macigni delle sue mura, e quel domandare senza voce che ti insegue per i sentieri e le strade, hanno dato una malia di volo alle memorie, liberato dall’angustia il luogo, dalla magia il tempo, ripopolata la solitudine e raccolto nell’attesa il crepuscolo sereno». 
Cirese è la memoria dialettale del Molise, l'uomo che ha reso possibile la conoscenza delle più radicate tradizioni molisane, partendo dall'amore per la sua terra d'origine e dalla volontà che questa bellezza naturale e misteriosa fosse conosciuta e apprezzata anche al di fuori dei suoi confini. La sensibilità di questo Maestro è evidente nelle poesie in dialetto molisano. Oggi la ristampa di Gente Buona riconferma il legame riconoscente che unisce il Molise a chi vi fu scolaro, Maestro di scuola, raccoglitore di canti e poeta. Poeta del Molise, come è scritto sulla sua tomba, e sull’intestazione della strada che fu di zì Minche, a Castropignano:
 
 
CAMINA
 
Da ‘n coppa all’uorte
Sembrava na formica
Pe ru tratture.
Annanze e arrète
Matina e sera:
A scegne la matina,
A renchianà la sera
Sudate e stanche,
La zappa ‘n cuolle
E pède nnanze pède, tranche tranche.
Zì Minche, è calle.
Frische è a ru sciume.
Zì Minche, è fridde.
Zappe e me scalle.
D’estate e dentr’a volerne,
Sempre la stessa via,
Iesse, la zappa e la fatìa.
Na vota l’anne
‘n coppa a le spalle
Nu sacchitte de grane:
La tozze de pane.
La zappa pe magnà.
Lu pane per zappà.
Può na bella matina
Zì Minche sbagliatte la via,
Pigliatte chella de Santa Lucia
Purtate a quattre.
CAMMINA
 
Da in cima all’orto (dall’alto dell’orto)
Sembrava una formica
Per il tratturo.
Avanti e indietro
Mattina e sera:
A scendere la mattina,
A risalire la sera
Sudato e stanco,
La zappa in collo (sulle spalle)
E piede avanti piede, piano piano.
Zio Menico, è caldo.
Fresco è il fiume.
Zio Menico, è freddo.
Zappo e mi scaldo.
D’estate e dentro l’inverno,
Sempre la stessa via,
Lui, la zappa e la fatica (il lavoro).
Una volta all’anno
In cima alle spalle
Un sacchetto di grano:
Il tozzo di pane.
La zappa per mangiare,
Il pane per zappare.
Poi una bella mattina
Zio Menico sbagliò la via,
Pigliò quella di Santa Lucia (il cimitero di 
Castropignano)
Portato a quattro.
 
 
 
 
«Chest’è la terra della bona genta» dice il primo verso della quartina con cui, nel 1925, mio padre Eugenio aprì il libro Sussidiario per le scuole del Molise che appunto intitolò «Gente buona».
 
Il Molise allora, e poi ancora per decenni, non era Regione a sé, ma solo la quinta provincia, Campobasso, della Regione di Abruzzo e Molise. Regione unica e burocraticamente, dunque, si sarebbe dovuto avere un Sussidiario unico, abruzzese-molisano. Invece no. Saggezza volle (di Giovanni Gentile, Ministro dell’istruzione, e di Giuseppe Lombardo Radice, Direttore Generale delle Scuole Elementari) che l’Abruzzo e il Molise avessero Sussidiari scolastici abruzzesi, l’uno, e molisani l’altro: diversi, cioè, così come diversi ne erano i dialetti, gli usi e le tradizioni. Io quindi ad Avezzano – ossia Marsica, ossia Abruzzo – non studiai su Gente buona, ma su un testo che ricordo intitolato Abruzzo forte e gentile (sarei felice se ne ritrovassi copia, o il nome dell’autore, almeno). E quel frontespizio di Gente buona infantilmente stampigliato quasi si fa, in vecchiaia, emblema del concrescere interiore di due patrie amate, Abruzzo materno e Molise paterno: le prime due delle cinque patrie che, tanti anni dopo, proprio in Molise scopersi di avere quietamente amiche tra loro (si aggiunsero Sabina, Sardegna e Messico). 
«Gente Buona», il Sussidiario che raccoglie canti e poesie del Molise, è stato adottato per lunghi anni nelle Scuole Elementari, testo che ha formato generazioni di uomini e donne fino a dopo il secondo conflitto mondiale. Molte sue poesie sono state introdotte in antologie, tradotte anche in inglese. Interessante anche la sua produzione di canzoni e la raccolta dei Canti popolari molisani.
 
 
BIBLIOTECA PROVINCIALE
«PASQUALE ALBINO»
 
 
Eugenio Cirese
GENTE BUONA
Libro Sussidiario
Per le scuole del Molise
Ristampa dell'edizione del 1925 a cura della Biblioteca provinciale «P. Albino»
 
PROVINCIA DI CAMPOBASSO
2007
Gino Marotta, Albero della vita (1973)
Metacrilato, 240x220x80 cm. (Collezione Farnesina)
 
 
Impreziosito da 91 immagini di Alfredo Trombetta, amico di Eugenio Cirese e artista della fotografia di levatura nazionale, è quest’ultima opera che, a circa ottanta anni dalla sua prima edizione e a poco più di cinquanta dalla morte del suo autore, la Provincia di Campobasso ha riproposto in ristampa anastatica, con una introduzione di un testimone di eccellenza, Alberto Mario Cirese, figlio dell’autore e molisano per scelta.
Nel 1991, per iniziativa dell’Istituto Eugenio Cirese di Rieti, con il patrocinio dell’Università del Molise e con il contributo delle amministrazioni provinciali di Rieti e di Isernia, l’editore Cosmo Marinelli ha ristampato La Lapa, due annate di Eugenio Cirese, più la terza postuma. Sei anni dopo, con il patrocinio della Amministrazione provinciale di Campobasso, l’editore Marinelli ha pubblicato due volumi intitolati «Oggi domani ieri» che raccolgono tutte le poesie in molisano di Eugenio Cirese e vi aggiungono le musiche ed altre pagine sul dialetto, la poesia e il Molise. Nel 2000, a Toronto, col titolo Molisan poems, Luigi Bonaffini ha pubblicato per le edizioni Guernica la sua traduzione in inglese del volume postumo del 1955 Poesie molisane, e l’ha accompagnata con la traduzione del saggio su Eugenio Cirese di Luigi Biscardi .
 
  
 
Le parole che Vittorio Santoli gli scrisse dopo il primo numero uscito a settembre del 1953:
«Desidero dirle che ho letto La Lapa da cima a fondo perché è scritta e pensata, è varia viva urbana, e sebbene esca in provincia, nient’affatto provinciale».
 
«La Lapa» è stato un periodico di storia e letteratura popolare, legato alla città di Rieti frutto del lavoro congiunto di due generazioni, quella di Eugenio Cirese, uomo di scuola e poeta dialettale, e quella di suo figlio Alberto Mario Cirese, insegnante e studioso universitario di tradizioni popolari e antropologia. La rivista fu capace di intersecare tradizioni di studio e temi regionali e locali con i fermenti della cultura italiana ed europea, e seppe costruire un’immagine nuova della poesia dialettale e dello studio delle tradizioni popolari. 
 
 
A partire dalla sua attività di insegnante, dapprima in sedi diverse del Molise poi in quella definitiva di Rieti, la sua attenzione didattica ai motivi del dialetto, oltre a seguire le finalità educative nella scuola assegnatele allora da Giolitti, va inquadrata anche in quelle istanze di fine ottocento «in cui l'originaria predilezione per il canto popolare si coniugava con la ricerca erudita delle tradizioni popolari» (Luigi Biscardi), nel dialetto fissandosi allora d'ogni terra lo spirito e l'anima più vera. A spiegarlo, con forza, sono queste sue stesse parole: «L'origine vera e profonda dello spirito e del carattere d'una Regione è il dialetto, come l'origine dell'unità di coscienza d'una nazione è la lingua. Negare l'unità della lingua significa negare la Nazione, negare l'unità del dialetto significa negare la Regione, svuotare l'arte dialettale del suo contenuto e della sua funzione essenziale, che è quella di celebrare la Regione col cuore e col linguaggio di tutti, di avanzare, con tutti, al possesso di nuovi valori».
Il tutto certo nello strumento di una lingua, al servizio di una lingua di cui ancora nel Molise è ricordato come la memoria in quella consapevolezza umana e critica da Cirese stesso ricordata nel 1953 in alcune considerazioni a Pier Paolo Pasolini: «Il dialetto è una lingua. Perché possa essere mezzo di espressione poetica e trasformarsi in linguaggio e immagini è necessario possederla tutta; avere coscienza del suo contenuto di cultura e della sua umana forza espressiva. Nell'infanzia e nella prima giovinezza... ho parlato, raccolto e cantato canzoni, gioito, pianto, pensato in dialetto. Non sto qui a sostenere la maggiore efficacia espressiva del dialetto sulla lingua letteraria ─ luogo comune non serio, perché ogni lingua ha pienezza ed efficacia di forme ─: dico solo che il possesso del dialetto agevola la ricerca di forme in atteggiamenti efficaci e immagini proprie: accresce insomma la possibilità di dare ─ e questa è per me l'esigenza vitale della poesia dialettale ─ qualche cosa di nuovo a se stessa e, perché no, alla lingua letteraria». 
Tra le poesie in vernacolo che maggiormente mi hanno entusiasmata, sia per la profonda sensibilità che per la dolcezza dei versi e per le metafore sottese, vorrei riportare: 
 
L'ACQUA E L'AMORE  
 
L'amore è come a 'na currenta d'acqua
Ch' è chiara a la surgiva; 
E dentre ze ce specchia e ze ce sciacqua 
La ièrva de la riva. 
La ièrva de la riva z' addecrèia, 
E l'acqua l'accarezza e murmuréia. 
 
Passa, repassa, vòta e z' areggira 
Sott' a un punteciélle .... 
Canta cchiù forte a notte quande mira 
La luna e ciènte stelle;
La luna e ciénte stelle 'n funne serra, 
Ze crede ca sta 'n ciele, ma è n terra. 
 
La china la straporta a la chianura 
Cchiù lèggia e senza funne. 
Spuma, sgrezzeia e senz' avé paura 
'Ntravede ru sprufunne: 
'Ntravede ru sprufunne e pure scorre 
E quand' è cchiù vicine cchiù ce corre.
 
Quand' è 'rrivata a balle e vo' repose, 
Nu liette te' de lota. 
Le racanelle càntene annascose, 
Da mmonte ve','accòta: 
Da mmonte ve' l'accòta 'ntruvedata, 
E l'acqua volle e sbòtta sdellazzata. 
 
Allaca le campagne e le turmènta; 
V' a 'rregne quacche buca, 
E quande nn' aretrova la currenta, 
La terra ze la suca: 
La terra ze la suca chiane chiane, 
'ddo' steva l'acqua resta nu pantane.
L'ACQUA E L'AMORE  
 
L'amore è come una corrente d'acqua
Che è chiara alla sorgente,  
E dentro ci si specchia e ci si sciacqua  
L’erba della riva. 
L'erba della riva si ricrea  
E l'acqua l'accarezza e mormora.  
Passa, ripassa, volta, si rigira  
Sotto un ponticello;  
Parla più forte a notte quando guarda  
La luna e cento stelle.  
La luna e cento stelle in fondo serra:  
Crede di essere in cielo, ma sta in terra.  
La china la trasporta alla pianura  
Più leggera e senza fondo.  
Spuma, spruzza e senza avere paura  
Intravede l'abisso. 
Intravede l'abisso eppure scorre,  
E quando è più vicino più ci corre. 
Quand'è arrivata a valle e vuol riposo,  
Un letto ha di fango.  
Le raganelle cantano nascoste;  
Da sopra viene la piena:
Da sopra viene la piena torbida  
E l'acqua bolle e sbatte rimestata.  
Allaga le campagne e le tormenta,  
Va a riempire qualche buca.  
E quando non ritrova la corrente  
La terra se la suga.  
La terra se la suga piano piano;  
Dove stava l'acqua resta un pantano.
 
SERENATELLA 
 
Jè nnotte e jè sseréne
déndre aru còre e ngíle.
Le štelle
fermate
vecine,
a cócchia a cócchia
o sole,
come a pecurêlle
štienne pasçênne
l’aria de notte
míze aru cuåmbe
senza rocchie
e senza fine.
Spónda la luna
e pare lu paštore
che uuårda e cónda
la mandra sparpagliata,
e z’assecura
che nnesciùna
ze spêrde
míze aru verde.
Canda nu rasciagnúole
la letanìa d’amore
déndre ana fratta.
Canda pe’ tê
che vviglie, bella,
e sínde
la serenata
déndre a la štanza
arešchiarata.
Ne nd’addurmì, dulcézza,
véglia fine a demane,
e penza a mê che štonghe
a repenzà lundane,
e uårde
la luna gghianga
che tt’accarézza
e pare che tt’arrênne
redênne
ru vàsce che tte donghe.
 
 
 
SERENATELLA 
 
È notte ed è sereno 
Dentro nel cuore e in cielo. 
Le stelle 
Fermate
Vicine, 
A coppie o sole, 
Come le pecorelle 
Stanno pascendo 
L’aria di notte 
In mezzo al campo 
Senza cespugli e senza fine. 
 
Spunta la luna 
E pare il pastore 
Che guarda e conta 
La mandria sparpagliata, 
E si assicura 
Che nessuna si perda 
In mezzo all’erba. 
Canta un usignolo 
 
 
 
 
La litania d’amore 
Dentro a una fratta. 
Canta per te 
Che vegli, 
Bella, 
E senti la serenata 
Dentro la stanza 
Rischiarata. 
 
Non t’addormire, dolcezza, 
Veglia fino a domani, 
E pensa a me che sono 
A ripensarti lontano, 
E guardo la luna bianca 
Che t’accarezza 
E pare che ti renda 
Ridendo 
I miei baci.
 
Mi piace lasciarci con un verso nella cui aderenza ai motivi veri del dire con l'uomo ci riconosciamo appieno: «Dentre a la vita méia m'arencontre/ e campe» («Dentro la mia vita mi rincontro/e vivo»).