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D’ANNUNZIO: La “vita” e i romanzi



Antologia - TERZO ANNO - 11^ Lezione
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Approfondimenti letterari

D’ANNUNZIO: VITA E ROMANZI
Undicesima lezione, con Diego. Passiamo a Gabriele D’Annunzio, l’altro grande mito del decadentismo di cui ci parla Carlo Salinari. La sua vita è ben diversa da quella di Pascoli, come l’abbiamo vista nella lezione precedente, dimessa, piena di timori, oscura, in certi momenti un morboso attaccamento alle sorelle, chiusura. D’Annunzio invece già da ragazzo, si può dire, esplodeva. Dalla sua Pescara si è trasferito a Roma e a 18 anni era il protagonista delle serate romane, pubblicava versi. Compone “Primo vere”, “Canto novo”, in ambito ancora verista, poi inizia una grande carriera, scrive sui giornali del tempo, come la “Cronaca bizantina”, è già allora un grande “promoter” di se stesso, è famoso prima ancora che dimostri le sue capacità, appare nella buona società romana come un giovane di grande fascino, con i suoi capelli ricci, che poi perderà tutti, ma non il fascino: sarà ricordato dalle sue amanti, diverse e famose, come un grande amatore. Isabella Duncan, la straordinaria danzatrice sudamericana, che fu una sua conquista, lo descrisse come il più grande amatore del suo tempo. Poi sarà il turno di Eleonora Duse, che lo trascinerà nel suo interesse per il teatro, che nasce in un secondo momento.
E così tante altre esperienze di quest’uomo che tra l’altro creò il mito di se stesso poeta a cavallo sulla riviera toscana, quando abitò la sua villa “La Capponcina”, quando le sue fan addirittura andavano sulle colline che davano sul mare e attendevano ore e ore per vederlo passare. Era anche quello che nell’ultima sua residenza, “Il Vittoriale”, creò uno studio nel quale aveva ricavato uno sportellino dal quale si affacciava per dire semplicemente “avete visto il poeta”, richiudere e mandarle via. 
D’Annunzio fa una carriera di professionista della penna. Pascoli è stato docente, nella scuola superiore e all’università, D’Annunzio invece si è mantenuto con le sue opere. Guadagnava moltissimo, perché vendeva bene i suoi romanzi, però spendeva anche, tanto che era continuamente inseguito dai creditori. Quando si fece arredare la villa della “Capponcina”, a Firenze, di cui parlavamo, dopo pochi mesi dovette fuggire, per evitare chi reclamava la restituzione di danaro, in Francia, dove fece la stessa cosa, si costruì un’altra residenza di interesse architettonico, artistico, secondo i gusti che abbiamo visto inaugurati da Huysmans con il suo “A rebours”, cioè del letterato che vive la sua esistenza come un’opera d’arte e per questo deve muoversi in un ambiente degno; e infine si ritirerà a Gardone, dove finalmente troverà pace, ma sempre in una straordinaria villa, “Il Vittoriale” appunto, offertagli dal governo fascista, che sarà la sintesi della sua incredibile vita. C’è un grande cinema, che ricorda il suo interesse per questa nascente forma d’arte, in questa sala c’è un aereo, di quelli che ha usato per le imprese di cui parleremo tra poco, di fronte c’è un altro fabbricato con il suo studio, classicheggiante, pieno di oggetti, nella piazza antistante i cannoni protagonisti della prima guerra mondiale, poi, sul pendio della collina che digrada verso il lago, troviamo prima l’anfiteatro, che ricorda il suo interesse per la scena, e più in fondo una parte di quell’unità d’assalto per mare, il Mas, che aveva usato per la famosa  beffa di Buccari, nell’alto Adriatico. Insomma tutte le testimonianze di una vita da superuomo, di cui ricordo la dimensione politica. Entrò in parlamento facendo questo discorso per essere eletto, del 1897, passato alla storia come “discorso della siepe”:
 
Uomo di gleba e di rupe, uomo contadino, o uomini contadini, io per me non voglio riconoscere nulla di estraneo, essendo disposto dalla natura e dall’arte a esperimentar tutto, a conquistar tutto, ad assorbir tutto, a vivere in perpetua plenitudine, con la maggiore possibile abbondanza di armonie; perocché io credo tanto un uomo più virtuoso quanto “più egli si sforza di accrescer l’ esser suo”.
Or voi vedete, dunque, ch'io traggo la mia espressione, se non dai caratteri essenziali della mia schiatta; i quali non sono se non un istinto di conservazione e un istinto di predominio vigorosi. L'istinto di conservazione c'induce ad affermare, a difendere l'integrità della nostra persona e del nostro bene; l'istinto di predominio c'induce ad aumentare la nostra conquista, sviluppando le nostre energie sino al grado supremo.
Ecco i due naturali fattori d’ogni più alta civiltà terrestre, emersi dalla profondità stessa della vita; ecco i due naturali fattori delle ineguaglianze, delle gerarchie, delle infinite subordinazioni che – secondo la prova di tutte le scienze – sono necessarie al progresso delle società umane come allo sviluppo delle specie inferiori.
(,,,) io vi dico in verità che quando un uomo afferma: ”Questo bene è mio, preso da me, e mi giova, e voglio proteggerlo e difenderlo contro tutti” costui ha un concetto della sua dignità e della sua potenza assai più alto di quello che abita il capo umile dell’uomo rassegnato a ricevere il suo bene dallo Stato come in antico l’Egizio era pago di riceverlo dal Faraone. – Nella storia delle stirpi umane come in quella delle specie animali è manifesto come la condizione prima d’ogni ascesa verso le superiori forme della vita è la lotta per lo sviluppo dell’individuo, è lo sforzo veemente dell’individuo per mantenere la sua indipendenza e i suoi attributi. Ora, quanto più l’uomo sa di poter fare assegnamento sul concorso altrui, tanto più egli repugna alla lotta, allo sforzo; tanto meno egli prova la necessità di elevarsi per mezzo di un’opera singolare.

 
Qui D’Annunzio sta facendo appello alle energie dell’individuo per difendere i suoi interessi e non affidarsi alla donazione o alla generosità dello stato. Metteremo fra poco a fuoco qual è l’oggetto del contendere…
 
(…)La fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, cui ella è madre nei secoli dei secoli plasticatrice.
Lo spirito latino non potrà riprendere la sua egemonia nel mondo se non a patto di ristabilire il culto della volontà Una e di ritener per sacro il sentimento che nell’antico Lazio inspirava le Feste terminali (per il dio che proteggeva i confini).
A voi certo è sacro quel sentimento, o agricoltori della mia terra, che educate con cura sollecita e assidua sul limite del campo la siepe tenace. Io vi dico, o agricoltori, che non mai abbastanza tenace e folta e spinosa e viva è la siepe ond’è precluso il suolo fecondo cui il vostro ferro dirompe e il vostro sudore irriga.

 
Non c’è niente di meglio che la siepe, che difende il terreno che avete coltivato, dice agli agricoltori che lo dovranno eleggere…
 
Afforzatela ancora, fate ch’emetta radici più robuste, aculei più fieri; perocché taluno non minacci di profanarla, di abbatterla, di raderla, di non lasciarne segno, non temendo d’esser votato agli dei infernali.
 

Rafforzate la siepe, affinché non vi sia nessuno che cerchi di entrare nei vostri terreni. E’ importante il riferimento sociale al fatto che nel 1897 si parlava già di collettivizzazione della terra, c’era la propaganda marxista, una sorta di anticamera della rivoluzione e i proprietari terrieri, piccoli o grandi che fossero, avevano paura che si passasse al socialismo, che si intendeva come divisione delle terre. D’Annunzio si pone, come conservatore, in difesa di questi interessi. Infatti entrerà nella Destra del parlamento.
 
Bella e protetta dai Cieli è la siepe che limita il campo lavorato, o agricoltori. Voi l’amate ed io l’amo, se fiorisca di bianchi fiori, se risplenda di rosse bacche. Ma forse voi medesimi non sapete, come io so, quanto ella sia viva. Poche cose nel mondo sono vive e inviolabili come la siepe che limita il campo lavorato, o agricoltori.
 
Passerà alcuni anni nella Destra. Nel 1900, quando si voteranno in parlamento le leggi contro partiti, sindacati, comizi, comunque contro certe libertà, perché c’erano stati fatti gravissimi (prima, nel 1898, il cannoneggiamento sulla folla di Bava Beccaris e poi l’assassinio del re Umberto nel 1900), D’Annunzio, quando si sta andando verso il passaggio del potere nelle mani della sinistra socialista, prima ancora che questo accada, passa dall’altra parte, con un gesto teatrale, muovendosi da un lato all’altro dell’aula, con la famosissima frase: “Vado verso la vita”. Volendo dire che la vita era il socialismo, il movimento, la rivoluzione, la giustizia, mentre ingiusto era il provvedimento. Giustizia intesa come difesa della libertà contro le disposizioni illiberali che si votavano per difendere l’ordine pubblico.
L’ultima cosa che riportiamo, a proposito dell’azione di D’Annunzio nella sua realtà, è tutto quello che lui fece durante la prima guerra mondiale, quando fu pilota di aereo, quando assalì le navi austriache nell’Adriatico, quando, abbattuto, perse la vista da un occhio e dovette stare al buio per lungo tempo e in quel periodo dettò la prosa del cosiddetto “Notturno”, e quando alla fine della guerra andò a conquistare Fiume. Siamo nell’anno e mezzo che segue la fine della guerra, prima dei trattati di pace, in conseguenza dei quali Giolitti caccerà dall’Istria D’Annunzio, che vi era arrivato per coltivare il mito della “vittoria mutilata”. Al termine del conflitto l’Italia non aveva diviso con gli altri paesi i frutti di questa guerra e allora lui andava a conquistare quella che era in fondo una città italiana. A questo proposito, in un discorso dei tanti tenuti dal palazzo del governo, dice…
 
In Fiume d’Italia ho conosciuto intera la diversità fra l’orazione scritta e l’orazione improvvisa.
 Veramente quella mezza ora che il mio spirito e la mia volontà di dominio vivevano prima ch’io apparissi alla ringhiera, quella misura di tempo senza misura m’era sublime.
Il popolo tumultuava e urlava chiamandomi. sotto le mie finestre la disumanata massa umana estuava (si allargava) ribolliva riscoppiava come la materia in fusione. io dovevo rispondere alla sua angoscia, dovevo esaltare la sua speranza, dovevo rendere sempre più cieca la sua dedizione, sempre più rovente il suo amore a me, a me solo, e questo con la mia presenza, con la mia voce, col mio gesto, con la mia faccia pallida, col mio sguardo di guercio.
 O misterioso contrappunto! senza determinare la mia eloquenza e il mio accento, accordavo a quel diffuso e confuso clamore non so qual clangore della volontà, non so quali squilli dell’imperio. certe cadenze, certe clausole mi balenavano dentro come quei baleni che appariscono a fior del metallo strutto, ai margini della fossa fusoria (il concetto della massa come crogiolo in cui lavorare).
 Una forza non più contenibile mi saliva allora al sommo del petto, mi anelava nella gola: credo mi soffiasse non so che fluorescenza o fosforescenza tra i denti e le labbra, gittavo un grido. i miei ufficiali accorrevano, spalancavano la porta, facevano ala. con passo violento come lo scatto della balestra andavo alla ringhiera, andavo ad bestias? ad animos? sì al popolo.

 
E qui c’è tutto il rapporto tra l’aristocratico e la massa, mentre va ad arringare alla folla. Abbiamo cercato di descrivere D’Annunzio un po’ sotto tutti gli aspetti. Ma adesso c’è un altro passo, del “Fuoco”, che ci leggerà Diego, in cui il protagonista Stelio Effrena, un superuomo che vuole comporre un’opera d’arte “totale”, che fonda la parola, la musica e la danza seguendo l’esempio di Wagner, viene descritto così …
 
D’ANNUNZIO, IL FUOCO, Parte I
Egli era giunto a compiere in se stesso l′intimo connubio dell′arte con la vita e a ritrovare così nel fondo della sua sostanza una sorgente perenne di armonie. Egli era giunto a perpetuare nel suo spirito, senza intervalli, la condizione misteriosa da cui nasce l′opera di bellezza e a trasformare così d′un tratto in specie ideali tutte le figure passeggiere della sua esistenza volubile. Egli aveva indicato appunto questa sua conquista quando aveva messo in bocca ad una delle sue persone le parole: ‟Io assisteva in me medesimo alla continua genesi d′una vita superiore in cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio.” Dotato d′una straordinaria facoltà verbale, egli riusciva a tradurre istantaneamente nel suo linguaggio pur le più complicate maniere della sua sensibilità con una esattezza e con un rilievo così vividi che esse talvolta parevano non più appartenergli, appena espresse, rese oggettive dalla potenza isolatrice dello stile. La sua voce limpida e penetrante, che pareva disegnare con un contorno netto la figura musicale di ciascuna parola, dava maggior risalto a questa singolar qualità del suo dire. Talché in quanti l′udivano per la prima volta si generava un sentimento ambiguo, misto di ammirazione e di avversione, manifestando egli se medesimo in forme così fortemente definite che sembravano risultare da una volontà costante di stabilire tra sé e gli estranei una differenza profonda e insormontabile. Ma, poiché la sua sensibilità eguagliava il suo intelletto, a quanti gli stavano da presso e lo amavano era facile ricevere a traverso il cristallo della sua parola il calore della sua anima appassionata e veemente. Sapevano costoro come fossero infinite le sue potenze di sentire e di sognare, e da qual combustione sorgessero le imagini belle in cui egli soleva convertire la sostanza della sua vita interiore.
 
Questo può essere poi completato da quanto ci dice l’autore in quest’altro passo dal “Piacere”, qualche anno prima…
 
IL PIACERE, Libro II, Capitolo I
Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessun istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo posseder il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto. Un verso perfetto e assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue. Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, sèguita ad esistere, nella conscienza degli uomini. Maggior poeta è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre un maggior numero di codesta performazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla scoperta di uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d’improvviso tutto l’essere.
 
Chiudiamo questa prima lezione su D’Annunzio leggendo un passo di Nietzsche, che parla del superuomo, in “Così parlò Zarathustra”. E’ la fonte del poeta abruzzese, però se ne rintraccia anche la diversa natura. Zarathustra, filosofo di un’imprecisata epoca del 1600 avanti Cristo, parla così. Leggi Diego…
 
NIETZSCHE, COSI’ PARLO’ ZARATHUSTRA, Parte I
Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una gran massa di popolo: era stata promessa infatti l'esibizione di un funambolo. E Zarathustra parlò così alla folla:
Io vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l'uomo? Che cos'è per l'uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l'uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme all'uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l'uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia.
E il più saggio tra voi non è altro che un'ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta?
Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire!
Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto.

 
E qui possiamo chiudere questa citazione. Quando dice “Dio è morto”, vuole intendere che è arrivato il momento in cui dobbiamo far leva su noi stessi e non riferire tutto a qualcosa che è al di sopra di noi. “Noi” dobbiamo diventare superiori, dice Zarathustra, e Nietzsche con lui. Questo mito è stato alla radice della vita di D’Annunzio, che però lo ha deformato e snaturato.  Arrivederci.
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