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ARIOSTO, ORLANDO FURIOSO: PROEMIO, LA FUGA DI ANGELICA



Antologia - 15^ Lezione
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anto 1,15
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Approfondimenti letterari (in coda alla pagina)
ARIOSTO, ORLANDO FURIOSO: PROEMIO, LA FUGA DI ANGELICA
Quindicesima lezione di Antologia, pagine di letteratura, con Barbara Petti, che continua ad aiutarci in questa lunga galoppata in pillole sulla letteratura italiana. Abbiamo l’altra volta chiuso con il Quattrocento, presentando nelle grandi linee questo grande fervore di idee della società dell’umanesimo; e ora facciamo il nostro ingresso nel rinascimento (se vogliamo considerare la distinzione fra una prima fase, detta umanesimo, e una seconda fase, detta rinascimento) con la letteratura del Cinquecento, che possiamo dire si apra con l’Orlando furioso” di Ludovico Ariosto, che nell’ultima lezione citammo come opera che avrebbe ripreso l’”Orlando innamorato” di Matteo Maria Boiardo, che chiudeva il discorso sulla poesia del Quattrocento.
Iquadriamo semplicemente, almeno nelle grandi linee, il vissuto di Ludovico Ariosto. Lui non è a Firenze, la corte di cui parliamo adesso è la corte di Ferrara, dove è ospite degli Estensi, del cardinale Ippolito, al quale ha chiesto aiuto perché il padre era morto e gli erano rimasti diversi fratelli da mantenere delle sorelle da sposare. In questa corte Ariosto sta non perché ami particolarmente viverci, ma per mantenersi. Però vuole rendere utile e sostanziale questa sua presenza  dedicando al particolare pubblico della signoria degli Estensi un’opera che lo intrattenga.
Presto capiremo come Ariosto, pur non stimando questo ambiente fatto di invidie, di ambizioni, di corruzione in qualche caso, anche diffidenza o slealtà, vuole però, pur divertendo i suoi “polli” (dico “polli” per dire che lui il suo pubblico se lo manovra, se lo articola, se lo plasma come vuole, è veramente un uomo superiore), insegnare loro qualcosa. E l’insegnamento fondamentale che Ariosto vuole passare all’umanità del suo tempo, e in particolare ai cortigiani, è che “degli uomini son vari gli appetiti”, come dice in una sua satira, e che importante sarebbe cercare di non affidarsi troppo ai propri desideri, frenarli, per potere meglio sostenere la propria esistenza senza esagerazioni e senza errori. E infatti, attraverso la vicenda di Orlando che impazzisce per amore, vuol dire che non si deve mai fare la stessa cosa, bisogna sempre mantenere il controllo delle proprie emozioni, dei propri  sentimenti e non farsi prendere da quello che ci accade al punto da perdere la ragione.
 
(Barbara legge il proemio)
LUDOVICO ARIOSTO, ORLANDO FURIOSO, I
    Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l'ire e i giovenil furori
d'Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
    Dirò d'Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d'uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m'ha fatto,
che 'l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.

 
Ariosto dice ai cortigiani che ha messo insieme due cicli, il carolingio e il bretone. I sei elementi, le donne, i cavalieri, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese, appartengono tre ad un ciclo e tre ad un altro: naturalmente i tre del ciclo carolingio sono i cavalieri, le armi e le audaci imprese, mentre quelli che si aggiungono dal ciclo bretone sono le donne, gli amori e le cortesie. E fin qui si immagina un Orlando innamorato, situazione inventata da Boiardo prima di lui, come abbiamo detto. Per Ariosto, però, quello che accadrà di peggio sarà che Orlando si è non solo innamorato di Angelica, ma è impazzito d’amore. Con questo crea sorpresa in un mondo cortigiano pronto a stupirsi, a meravigliarsi, a immaginare qualcosa di nuovo.
Ma nella seconda parte di questa ottava che hai letto dice che parlerà di tutto questo se però la sua donna glielo concederà, cioè se anche colei di cui è innamorato abbandonerà un po’ la sua mente in maniera che si possa dedicare alla sua opera. Introduciamo l’elemento fondamentale nella struttura mentale e personale di Ariosto, l’ironia, soprattutto la capacità di esercitarla su se stesso, prima ancora che sugli altri, cosa che rende straordinaria questa dote. Il poeta sa che anche lui rischia di impazzire per Alessandra Benucci.
Anche nelle “Satire” accennava al fatto che non voleva seguire il cardinale Ippolito nel suo servizio in Ungheria perché si sarebbe dovuto allontanare da Alessandra. Riconosce così tranquillamente che quello è il motivo per cui non si vuole allontanare, superiore al timore del viaggio (che in quel tempo era rischioso, con gli gli attacchi dei pirati e altro. Nella stessa satira poi, in un altro passaggio, dirà che se deve viaggiare preferisce stare nella sua piccola casa, dove si cuoce anche una rapa su uno stecco, che ha più sapore di  mille leccornie della corte, se per stare in corte poi deve rischiare la vita, andando in Ungheria, o se addirittura deve perdere la sua libertà. E’ pronto a rifiutarsi, anche a perdere privilegila e stipendio, se poi non deve essere padrone di scegliere che cosa fare della sua vita. Tra l’altro racconta la favola del mulo che entra in un granaio, attraverso un foro, si rimpinza di frumento e poi vorrebbe uscire, ma si è fatto una pancia tale che non riesce a venir fuori; per ripassare da quel buco, dovrà vomitare tutto. Questa è la situazione in cui si riconosce Ariosto, di chi è pronto a vomitare tutto quello che ha acquistato dentro la corte, se mantenerlo significa perdere la libertà.
Comincia poi la seconda parte di questa introduzione, con la dedica agli Estensi. Come in tutti i poemi, c’è una presentazione dell’argomento, che abbiamo visto qual è, l’argomento cavalleresco; poi c’è una invocazione, in questo caso scherzosa, ad Alessandra, di lasciarlo un momento in pace in modo che possa scrivere; e infine c’è la dedica ai benefattori, ai mecenati, gli Estensi. Anche la dedica ad Ippolito è scherzosa…
 
    Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l'umil servo vostro.

 
O Ippolito, accettiate l’unico dono che vi può dare il  vostro umile servo…
 
Quel ch'io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d'opera d'inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.

 
Ariosto finge modestia. Dice: “Io non posso darvi ricchezze, ma soltanto opere di penna, d’inchiostro, che sono piccole cose, però sono tutto quello che vi posso dare”. In realtà, mentre si professa umile, è di una superbia straordinaria, con l’autostima dei grandi, senza la quale non esiste la grande letteratura. Sa benissimo che l’opera che sta donando è immortale e tale renderà Ippolito con la citazione che ne fa. Sa benissimo che gli sta dando molto di più di quanto non meriti, ma finge di non saperlo. In fondo chi ci fa la brutta figura è proprio Ippolito d’Este, un tale cane, un tale rozzo (naturalmente gonfiando ed esagerando le cose) che non è nemmeno riuscito a capire le sue virtù, tanto che, in un’altra satira, Ariosto dice: “di poeta cavallar mi feo”. Mi fece, da poeta che ero, cavallaro. Cioè lo doveva seguire a cavallo in tutte le sue spedizioni, compresa quella in Ungheria, alla quale non andò. E dice anche che lo aveva messo a fare lo scrivano, invece che il poeta, cioè a registrare i conti e le note dell’amministrazione di tutte le attività della corte, in cui aveva l’impressione di essere sprecato. Poi, per quanto riguarda la sua vita, sappiamo che passerà al servizio dell’altro estense, Alfonso. Con lui starà meglio, perché, lo dirà in una satira, aveva soprattutto il pregio di non viaggiare molto, cosa che gli consentiva di stare vicino alla sua amata Alessandra Benucci.
Inoltre gli estensi saranno contenti perché parlerà di Ruggero e Bradamante, da cui  discenderà la loro stirpe. Ariosto in questo si rifà ai grandi poemi dell’antichità, iImitando la situazione virgiliana dell’Eneide, quando si parla di Iulo, figlio di Enea, che genererà la gens iulia, da cui discenderà lo stesso Augusto …
 
    Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m'apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de' vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L'alto valore e' chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensieri cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.

 
 Poi c’è questo straordinario passo che riguarda la “Fuga di Angelica”... 
 
    Orlando, che gran tempo innamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti ed immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,
    per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d'aver condotto, l'un, d'Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l'altro, d'aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E così Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentì d'esservi giunto:

 
Orlando, presa Angelica, è venuto dall’oriente in occidente convinto di potervela proteggere meglio, ma, ecco l’ironia di Ariosto, è arrivato proprio ne luogo in cui rischia di perderla. Si presenta una costante del poema. La vita è piena di imprevisti. Quando desideriamo una cosa non la otteniamo, ci arriva davanti quando non la cerchiamo. E così in genere tutto quello che vogliamo che accada, morbosamente e accanitamente desideriamo, poi non si verifica, se non per caso. Quindi è meglio lasciar fluire la vita così come va, senza accanirci troppo, senza indirizzarla eccessivamente. Infatti dice…
 
    Che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperi ai liti eoi
avea difesa con sì lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch'estinguer volse
un grave incendio, fu che gli la tolse.

 
Cioè chi gliela tolse fu re Carlo, perché si fosse innamorato di Angelica, ma perché tutti i cavalieri cristiani si erano innamorati di lei e invece che a combattere pensavano a conquistarla. Allora cosa pensa di fare Carlo? “Prendo Angelica, la metto in un padiglione, la affido al conte di Maganza e sarà trofeo di chi meglio si distinguerà in battaglia oggi”. Questa è la sua promessa. E così si risolve il problema, perché tutti vanno a impegnarsi bene in battaglia per conquistarla. Senonché in quel giorno  i Saraceni sconfiggono i Cristiani e nessuno fa più guardia al padiglione dove è protetta Angelica, che ne approfitta per salire su un cavallo e darsi alla fuga…
 
(filmato dall’Orlando furioso di Ronconi, con l’incontro fra Rinaldo e Angelica)
    Indosso la corazza, l'elmo in testa,
la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;
e più leggier correa per la foresta,
ch'al pallio rosso il villan mezzo ignudo.
Timida pastorella mai sì presta
non volse piede inanzi a serpe crudo,
come Angelica tosto il freno torse,
che del guerrier, ch'a piè venìa, s'accorse.
    Era costui quel paladin gagliardo,
figliuol d'Amon, signor di Montalbano,
a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
per strano caso uscito era di mano.
Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe, quantunque di lontano,
l'angelico sembiante e quel bel volto
ch'all'amorose reti il tenea involto.

 
Situazione. Angelica in fuga si imbatte per caso in Rinaldo che sta inseguendo il suo cavallo. I due non si stanno cercando ma si incontrano. E così è la vita, vuole dire Ariosto. Quando non cerchiamo la cosa la troviamo, quando la cerchiamo non la troviamo. E un po’ quello che diremo con la “Madeleine” di Proust: il protgonista cerca di ricordare, impegna la memoria volontaria, ma non riesce; e poi involontariamente, per caso, bagnando nel tè la madeleine, intorno a lei si costruiscono tutti i ricordi, il passato.
Riprendiamo. Rinaldo lascia la ricerca di Baiardo e si mette all’inseguimento di Angelica, che fugge, fugge sempre, oggetto del desiderio, un simbolo di tutto quello che desideriamo ogni giorno e che si dilegua davanti a noi che cerchiamo di raggiungerlo…
 
    La donna il palafreno a dietro volta,
e per la selva a tutta briglia il caccia;
né per la rara più che per la folta,
la più sicura e miglior via procaccia:
ma pallida, tremando, e di sé tolta,
lascia cura al destrier che la via faccia.
Di sù di giù, ne l'alta selva fiera
tanto girò, che venne a una riviera.
    Su la riviera Ferraù trovosse
di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
un gran disio di bere e di riposo;
e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
perché, de l'acqua ingordo e frettoloso,
l'elmo nel fiume si lasciò cadere,
né l'avea potuto anco riavere.

 
Situazione. Angelica ha incontrato Rinaldo, mentre questi non cercava lei ma Baiardo; adesso, in fuga da lui, incontra Ferraù, un pagano, un altro cavaliere che  potrebbe mirare a lei (perché anche i nemici sono innamorat di lei); ma, a sua volta, come Rinaldo prima, non sta cercando Angelica, ma il suo elmo, che è caduto nell’acqua mentre beveva. Doppia casualità: si era fermato a quella fonte per bere, se non avesse avuto sete non lo avrebbe fatto, non solo, ma si era intrattenuto perché per caso gli era caduto l’elmo nell’acqua. Se fosse stato meno tempo non avrebbe incontrato Angelica. Con questo Ariosto vuole dire ai cortigiani che la vita è completamente abbandonata al caso. Anche Ferraù, appena vede Angelica, si distoglie dal pensiero dell’elmo e si rivolge a lei. Ma arriva Rinaldo, i due si scontrano e la donna approfitta per fuggire…
 
    Poi che s'affaticar gran pezzo invano
dui guerrier per por l'un l'altro sotto,
quando non meno era con l'arme in mano
questo di quel, né quel di questo dotto;
fu primiero il signor di Montalbano,
ch'al cavallier di Spagna fece motto,
sì come quel ch'ha nel cuor tanto fuoco,
che tutto n'arde e non ritrova loco.
    Disse al pagan: - Me sol creduto avrai,
e pur avrai te meco ancora offeso:
se questo avvien perché i fulgenti rai
del nuovo sol t'abbino il petto acceso,
di farmi qui tardar che guadagno hai?
che quando ancor tu m'abbi morto o preso,
non però tua la bella donna fia;
che, mentre noi tardiam, se ne va via.
 

I due si fermano, si rendono conto che intanto il loro oggetto del desiderio se ne va via e pensano di raggiungerla per poi disputarsela. Ariosto vuol dire che spesso quando si litiga non si ottiene nulla. Quanto lo vorrei ricordare ai nostri contemporanei, specie in un periodo di crisi come il nostro! “Antologia” è il mio “Orlando furioso” per loro, il parlare in metafora attraverso le lezioni. Tornando a noi, i due si mettono d’accordo per inseguire Angelica. C’è un particolare, a questo proposito. Ferraù, quando deve affrontare Rinaldo, che è a piedi, scende da cavallo, perché lo deve fare ad armi pari. Un’altra cosa che insegna molto agli uomini del nostro tempo, un’epoca di sciacalli, in cui si approfitta di una posizione di vantaggio per prenderci le nostre vendette. Ripensiamo al principe di Tomasi di Lampedusa, che parlava di gattopardi come lui e di altri che chiamava sciacalli, le iene, i personaggi del nuovo tempo. Concludendo, questi sono uomini che si affrontano lealmente e, quando finalmente hanno deciso di tornare alla ragione e di seguire Angelica, salgono sullo stesso cavallo tutti e due e la inseguono. Ma la donna, nella sua corsa sfrenata, arriva a un bivio e i due devono dividere le loro strade. Chi avrà la fortuna di raggiungerla avrà il premio.
Come vedete, apparentemente abbiamo parlato della fuga di Angelica, apparentemente abbiamo parlato di Orlando. Nella realtà abbiamo parlato della nostra vita. E l’“Orlando furioso” per Ariosto è la metafora della vita trasmessa ai cortigiani, quando meno se lo aspettano, come meno se lo aspettano. Come voi studenti. Credete di studiare letteratura, ma in realtà state studiando vita con un professore che cerca di insegnarvela. E arrivederci alla prossima lezione.
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