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Antologia - 8^ lezione



Antologia - 8^ Lezione
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anto 1,8 Title 1
https://www.youtube.com/watch?v=BiBx43oZoYg

COMMEDIA, INFERNO: CANTO VENTISEIESIMO
 
Ottava puntata di Antologia, con Barbara. Ci eravamo lasciati con il canto dei simoniaci, dei papi. Si passa poi attraverso altre male bolge e si arriva ai consiglieri di frode, fra i quali c’è questo grande personaggio del passato, Ulisse, che rappresenta un punto nodale nello sviluppo della cultura fra il Trecento e la fase umanistica del Quattrocento.
Dante ha notato sul fondo della bolgia tante fiammelle. Ognuna contiene un’anima, gli ha spiegato già Virgilio, però una è una lingua di fiamma con due punte; di solito la lingua biforcuta è falsa e già questo starebbe ad indicare il segno di una frode, dell’inganno, di cui era esperto Ulisse. Visto così, Ulisse è un personaggio negativo, in realtà per Dante assume significati più profondi, che vedremo. La fiamma ha due punte perché vi sono contenute due persone, Ulisse e Diomede, che come insieme andavano all’inganno, si ritrovano insieme tra i consiglieri di frode, come Paolo e Francesca…
 
INFERNO, CANTO XXVI
   Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
   indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
   mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
   né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
   vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
   ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
   L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
   Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
   acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

 
Navigando nel mediterraneo, arrivato alle colonne d’Ercole, allo stretto di Gibilterra, invece che fermarsi davanti all’ostacolo, l’inarrestabile Ulisse fa questo discorso…
 
(legge Barbara)
   "O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
   d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
   Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
(legge il professore)
   Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
   e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

 
Siete stati creati non per vivere come gli animali, come i bruti, ma per seguire la virtù e la conoscenza. E’ stato così bravo a sollecitare l’orgoglio dei suoi compagni di viaggio, è tale lo speciale stato d’animo che ha provocato in loro, che saranno pronti a sfidare ogni pericolo pur di andare avanti verso il “folle volo”. Si vuol dire che per Ulisse, nel momento in cui lo ha sperimentato, questo viaggio era un’esaltante condizione, adesso, nell’inferno, deve ammettere l’insania di una ricerca al di là dei limiti imposti dalla divinità. Questo è il punto. Laddove ci si sofferma su questi limiti Dante è medievale, ma laddove dimenticandoli dichiara la simpatia per l’ansia, la voglia di conoscere di Ulisse, è un preumanista, sta preparando il nuovo mondo, con l’uomo che sperimenta, vuole che la sua vita terrena diventi importante come quella spirituale. Ulisse poi finirà male con i suoi compagni. Questo è il finale: passano le colonne d’Ercole, passano l’equatore…
 
   Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
   Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
   quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
   Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
   Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

 
Il mare che si chiude come una bara ci richiama un altro personaggio ulisseo, associato ad Ulisse anche in teatro, il capitano Achab del romanzo di Melville, “Moby Dick”…
 
(Scena di “Moby Dick”, con Gregory Peck)
HERMAN MELVILLE, MOBY DICK
Achab: Che cosa fate, marinai, quando vedete una balena?
Marinai: La segnaliamo!
Achab: Bene! E che cosa fate dopo, marinai?
Marinai: Ammainiamo e la inseguiamo!
Achab: E a che canto remate, marinai?
Marinai: Balena morta o lancia sfondata!
Achab: Vedete quest’oncia d’oro spagnola? Chiunque di voi mi segnali una balena dalla testa bianca, dalla fronte rugosa e dalla mandibola storta, che ha tre buchi nella pinna dritta della coda, riceverà quest’oncia d’oro, marinai!
Marinai: Urrà! Urrà!
Achab:  E’ una balena bianca, vi dico. Cavatevi gli occhi per cercarla, guardate bene se vedete acqua bianca: se vedete anche solo una bolla, segnalate!
Tashtego: Capitano Achab, quella balena bianca deve essere la stessa che molti chiamano Moby Dick.
Achab: Conosci dunque la Balena Bianca, Tash?
Capo Allegro: Dibatte la coda in un modo curioso prima di tuffarsi, signore?
Deggu: E ha uno spruzzo curioso, molto grosso e rapidissimo, capitano?
Quiqueg: E ha uno, due, tre...molti ferri sul corpo, tutti contorti, storti come il...
ACHAB: Cavatappi! Sì, Quiqueg, i ramponi gli stanno nel fianco tutti storti e divelti, sì, Deggu, il suo spruzzo è grosso come un fascio di grano e bianco come un mucchio della lana di Nantucket dopo la grande tosatura  annuale; sì, Tashtego, e dibatte la coda come un fiocco sbrindellato nella raffica. La morte e i diavoli! È Moby Dick che avete visto, marinai, Moby Dick, Moby Dick!
STARBUCK: Capitano Achab, ma non è stato Moby Dick a strapparvi la gamba?
ACHAB: Chi ti ha detto questo? Sì, Starbuck, sì, miei coraggiosi, è stato Moby Dick che mi ha disalberato, Moby Dick che mi ha ridotto a questo tronco su cui mi reggo ora. Sì, sì! È stata quella maledetta Balena Bianca a rasarmi, a far di me per sempre un buono a nulla incavigliato! Sì, sì! E le darò la caccia oltre il Capo di Buona Speranza, al di là del Capo Horn, al di là del grande Maelstrom di Norvegia, oltre le fiamme della perdizione, finché non sfiati sangue nero e si rivolti con le pinne all’aria. Che cosa rispondete, marinai? A vedervi sembrate coraggiosi.
MARINAI: Sì, sì! Occhio puntato alla Balena bianca, lancia puntata contro Moby Dick!
ACHAB: Che Dio vi benedica! Dispensiere, va’ a prendere la grande misura di grog!

 
Achab, dopo avere motivato i marinai con la stessa capacità di Ulisse, ascolta Starbuck…
 
(Scena da “Moby Dick”, recitata da Barbara come Starbuck e dal professore come Achab)
STARBUCK: Vendetta sopra un bruto che non ha la parola! Che ti colpì soltanto per il più cieco degli istinti! Follia! Essere infuriato contro una creatura muta, capitano Achab, mi sembra un’empietà.
ACHAB: Ascolta ancora, una parola più profonda, Starbuck. Tutti gli oggetti visibili, vedi, sono soltanto maschere di cartone, ma in ogni evento qualcosa di sconosciuto, ma sempre ragionevole, mostra il suo volto sotto la maschera bruta. E se l’uomo vuol colpire, colpisca sulla maschera! Come può il prigioniero tirarsi fuori se non si caccia attraverso il muro? Per me la Balena Bianca è questo muro, che mi è stato spinto accanto. Talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Lei mi occupa, mi sovrasta: io vedo in lei una forza atroce scatenata da una cattiveria imperscrutabile. Questa cosa imperscrutabile  è ciò che odio soprattutto: e sia la Balena bianca la causa secondaria o la causa primaria, io sfogherò su di lei questo mio odio. Non parlarmi d’empietà, marinaio: io colpirei il sole, se mi facesse offesa. Vedi quelle facce dalle chiazze abbronzate, quei quadri dipinti dal sole, vivi e respiranti? I leopardi pagani, gli esseri senza pensieri e senza culto che vivono e non danno ragioni della torrida vita che sentono! L’equipaggio, marinaio, l’equipaggio! Non sono tutti dal primo all’ultimo con Achab, in questa impresa della balena?
 

Così Achab ha spiegato che non è un capriccio il suo, è veramente combattere contro un male che è dentro di lui, un muro che deve valicare; e in questa maniera lavora, pensa, agisce l’Ulisse di Dante. La balena bianca è ciò che di insondabilmente negativo per noi dobbiamo rimuovere, superare per essere più tranquilli. Già in Omero Ulisse non era solo l’uomo dell’inganno, ma era curioso di conoscere. Per esempio, nella terra dei Ciclopi e di Polifemo, Ulisse, se dovesse raccontare la sua storia, direbbe:
 
OMERO, ODISSEA, IX
“Arrivammo alla terra dei Ciclopi violenti e privi di leggi, approdammo di notte, al mattino girammo l’isola, trovammo capre montane, le cacciammo e tutto il giorno sedemmo fino al tramonto; consumammo le loro carni abbondanti e dolce vino. Appena il sole calò ci sdraiammo sulla riva del mare. Quando mattutina apparve Aurora dalle rosee dita parlai in mezzo a tutti…”
“Voi altri aspettatemi, fedeli compagni, che io con alcuni di voi vado a vedere che uomini sono costoro: se prepotenti, selvaggi, ingiusti oppure ospitali e timorosi degli dei…”

 
Deve a tutti i costi  andare a vedere chi abita questa terra. E ostinatamente si muove…
 
“Arrivammo a una grotta alta (immaginiamo sempre che lui racconti), coperta di alloro. Fuori dormiva un uomo immenso, un mostro immenso. Entrammo nella grotta…formaggi, capretti, agnelli in grande quantità. I compagni mi fecero di prendere i formaggi e andare via liberando gli animali per poi raccoglierli sulla nave e scappare sul mare insomma. Ma io non volli ascoltarli (direbbe Ulisse se potesse raccontarsi come vuole Omero)- e sarebbe stato assai meglio-  per poterlo vedere e vedere se mi avrebbe invitato. E il mostro arrivò e dopo un po’ ci scorse.”
 
E si va a cacciare nei guai. Sappiamo come è andata con il Ciclope, quello che ha dovuto passare per liberarsi dalla sua prigionia. Un altro grande curioso del  tempo di Dante è Marco Polo, l’autore del “Milione”, da lui dettato a un compagno di cella, che sembra si chiamasse così da Emilione, il soprannome della famiglia Polo. Vi racconta il suo viaggio in Asia al seguito degli zii per commerciare, contrattare. Ebbene, del “Milione”, una ricostruzione di qualcosa di meraviglioso, di straordinario, che ha registrato in venti anni di permanenza in Asia, leggerò la pagina in cui descrive il palazzo del Gran Cane:
 
MARCO POLO, IL MILIONE
Sappiate veramente che 'l Grande Kane dimora ne la mastra città - che è chiamata Canbalu - 3 mesi dell'anno, cioè dicembre, gennaio e febraio; e in questa città à suo grande palagio, e io vi diviserò com'egli è fatto. Lo palagio è di un muro quadro per ogni lato di uno miglio…quivi si tiene tutti gli arnesi del Grande Kane, archi, turcassi, selle, freni, corde, tende, tutto ciò che bisogna a lotte e a guerra e ancora tra questi palagi ha quattro palagi in questo circuito, sicché questo muro attorno attorno sono otto palagi e tutti sono pieni di arnesi e in ciascuno non ha se non una cosa e questo muro verso la faccia di mezzodie ha cinque porte e nel mezzo una grandissima porta che non s’apre mai né chiude, se non quando il grande kane vi passa, cioè entra ed esce e dall’altra porta ve ne sono due piccole, da ogne lato una che entra tutta l’altra gente, da l’altro canto ve ne è una grande da la quale entra ogne uomo. E dentro questo muro è un altro muro e attorno attorno hae otto palagi come nel primario e così sono fatti. Ancor vi sta gli arnesi del Grande Kane e la faccia verso mezzodie havvi cinque porte e l’altre una…
 
La descrizione successiva di questo straordinario palazzo è solo una delle meraviglie riferite nel libro, testimonianza del fatto che già alla fine del Duecento c’è questa grande voglia di scoperta, di esperienza. Marco Polo è un’antesignano, però dietro di lui ce ne saranno altri. Ebbene Italo Calvino nelle “Città invisibili” immagina una partita a scacchi…
 
ITALO CALVINO, LE CITTA’ INVISIBILI
Tornato dalla sua ultima missione, Marco Polo trovò il Cane che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera. Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descrivergli con solo l’aiuto degli scacchi le città che aveva visitato. Il veneziano non si perse d’animo. Gli scacchi del Gran Cane erano grandi pezzi d’avorio levigato. Disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando viali di milizie oblique…
Poi il Gran Cane  cercava di immedesimarsi nel gioco, ma era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine di ogni partita è una vincita o una perdita, ma di cosa? Qual era la posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Cublai Can era arrivato all’operazione estrema. La conquista definitiva dei suoi multiformi territori dell’impero non erano che involucri illusori. Si riduceva a un tassello di legno piallato.
 
E cioè il nulla. Nelle “Città invisibili”, metafora della società contemporanea, perché ne rappresentano l’invisibilità come assenza di sostanza, anche Cublai Can, giocando a scacchi con Marco Polo, deve costatare che in fondo quell’accanirsi per conquistare chissà che cosa in questo mondo si riduce al vuoto, al nulla. E quindi, tralasciando il messaggio dell’Imperatore di Kafka perché non avremmo tempo di parlarne, ill vuoto, il nulla stringe Ulisse dopo aver superato le colonne d’Ercole, anche l’equatore, pensando di avere conquistato chissà quale conoscenza di un altro mondo e ritrovandosi semplicemente con un mare che si richiude al di sopra di tutti, come quello del finale di “Moby Dick”, quando Ismaele, scampando a tutto, dice che diventa un grande sudario nel quale sono finiti il capitano Achab e la sua vittima-carnefice, la balena bianca.  La conclusione è che Dante ama l’ansia di conoscenza di Ulisse, però non può dimenticare il fatto che in fondo questo mondo in cui viviamo, secondo la prospettiva cristiana, è nulla. Ci vediamo la prossima volta, alla nona puntata.