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ANTIRINASCIMENTO: BEOLCO (RUZANTE), FOLENGO (BALDUS), CELLINI (VITA)




Antologia - 22^ Lezione

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Approfondimenti letterari (In coda alla pagina)
ANTIRINASCIMENTO: BEOLCO (RUZANTE), FOLENGO (BALDUS), CELLINI (VITA)
MANIERISMO RINASCIMENTALE: CASTIGLIONE (CORTEGIANO), DELLA CASA (GALATEO)
 Ventiduesima lezione di Antologia, con un’alunna vera, Marinella, che collaborerà con noi con un’altra che vi presenteremo dopo, Antonella. L’ultima volta trattammo Erasmo, Moro e Rabelais, tre grandi protagonisti del rinascimento europeo che non solo hanno esaltato i valori di questa cultura ma hanno anche interpretato la prima voce critica nei confronti di una società che ha dei problemi, nella prima parte del Cinquecento. Uno di questi è la corruzione della Chiesa, un altro la guerra di religione che incomincia a imperversare in Europa. Anche altri aspetti non funzionano, già sottolineati dai tre, e adesso li riprendiamo in altri autori che intervengono nell’analisi della loro società.
Anche la scoperta del nuovo mondo ha generato la capacità di valutare la consistenza della propria attività sociale da parte degli europei, confrontando la loro organizzazione con il modo di vivere degli abitanti del continente americano. La naturalezza, la semplicità di questa gente ha messo in risalto il conformismo, l’ipocrisia e la continua finzione delle corti rinascimentali, nelle quali contavano leapparenze. Alle testimonianze degli autori europei presentati nella lezione precedente si uniscono su questo tema alcuni italiani. Uno di questi è Angelo Beolco, detto il Ruzante, dal nome della maschera che utilizzava nelle sue commedie. Di una di queste vogliamo leggervi un passo, con l’aiuto di Marinella e  Antonella, che reciteranno un dialogo dal “Parlamento de Ruzante che era vegnu’ de’ campo”, naturalmente nella traduzione dall’originale “pavano”, padovano. Ecco qui Antonella, che sarà Menato, mentre Marinella sarà Ruzante:
 
ANGELO BEOLCO, PARLAMENTO DE RUZANTE CHE ERA VEGNÙ DE CAMPO, SCENA II
MENATO: (sopraggiungendo) Compare! Ma siete proprio voi? E chi vi avrebbe mai riconosciuto? Siete così patito che sembrate un luccio fritto. Non vi avrei mai riconosciuto, compare. Ma siate il benvenuto.
RUZANTE: (smontato) Patito, vero, compare? Se voi foste stato dove sono stato io me, non direste così. (…)
MENATO: (dopo una pausa) Poh, compare! Avete un gabbano più lungo di questo giubbotto di cuoio.
RUZANTE: Mah! Lo presi così a un villano [perché avevo freddo, io], a un villano di quel paese. Canchero! Sono dei brutti rospi, i villani: per un quattrino, lascerebbero spasimare uno.
MENATO: Poh, compare, ora credo che, perché siete soldato, non pensate di essere della villa, voi.
RUZANTE: No, compare. Io dico – intendete  quel che dico? – io voglio dire che loro non hanno quel garbo che abbiamo noi padovani. Villano è chi fa le villanie, non chi sta nelle ville.
MENATO: (annusando l'aria) Canchero, compare, mi sapete non so che strano odore...
RUZANTE: O che odore? Non è un cattivo odore, è odore di fieno; ché ho dormito per quattro mesi sempre sui fienili. Vi so dire che i letti non mi…
MENATO: (interrompendolo) Fermo, compare! Credo che questo (gli acchiappa qualcosa sulla giubba, con due dita) sia un cardellino senz'ali.
RUZANTE: Oh, non parlatemi dei pidocchi! Le briciole del pane, al campo, quando cadono addosso, subito mettono i piedi e il becco, e diventano pidocchi. Il vino, quando lo bevi [perché sempre si ha voglia di far male, e perché non se ne può far tanto come si vorrebbe], fa venire chiazze e cattivo sangue, e butta scabbia, croste, rogna e pustole per tutto il corpo.

 
E ora l’altro passo. Ruzante con Gnua. Antonella nel ruolo di Gnua:
 
SCENA III
GNUA: (passa indifferente sul fondo. Alle grida festose di Ruzante volge appena il capo verso di lui. Il tono della sua risposta è gelido e sprezzante) Ruzante? Sei tu? Sei vivo ancora? Potta! Sei così stracciato, hai una tal brutta cera… Non hai guadagnato niente, vero o no?
RUZANTE: Ma non ho guadagnato assai per te, se ti ho portato la carcassa viva?
GNUA: Oh, la carcassa! Mi hai ben pasciuta. Vorrei che tu mi avessi preso qualche gonnella per me.
RUZANTE: (tentando un ammicco) Ma non è meglio che sia tornato sano di ogni membro, così come sono?
GNUA: Ma sì, (membro in culo!) Vorrei che tu mi avessi preso qualcosa. (rapida pausa) Su, ora voglio andare, ché sono aspettata.
RUZANTE: Potta! Ma hai proprio una gran fretta (al culo)! Aspetta un po'.
GNUA: (calma) Ma che vuoi che faccia qui, se non hai niente da fare con me? Lasciami andare.
RUZANTE: Oh, canchero a quanto amore ti ho portato! Ti vuoi subito andare a imbucare, e non pensi che io sono venuto dal campo apposta per vederti.
GNUA: E ora non mi hai veduta? Non vorrei, a dirti il vero, che tu mi rovinassi, ché ho uno che mi fa del bene, io. Non si trovano mica ogni giorno di queste fortune.
RUZANTE: (senza scomporsi) Poh, ti fa del bene! Te l'ho pur fatto anch'io. non ti ho mai fatto del male, come sai. Quello non ti vuole certo tanto bene come ti voglio io.
GNUA: Ruzante, sai chi mi vuol bene? Chi me lo mostra.
RUZANTE: Ma sì, come se io non te l'avessi mai mostrato…
GNUA: Che mi fa che tu me l'abbia mostrato, e che non me lo possa mostrare adesso? Perché adesso ne ho anche bisogno. Non sai che ogni giorno si mangia? Se mi bastasse un pasto all'anno, potresti parlare. Ma bisogna che mangi ogni giorno, e perciò bisognerebbe che tu me lo potessi mostrare anche adesso, perché adesso ne ho bisogno.
RUZANTE: Oh, ma si deve pur fare differenza tra uomo e uomo. Io, come sai, sono uomo dabbene e uomo compito…
GNUA: (interrompendolo) Sicuro che la faccio! Ma c'è anche differenza tra star bene e star male. Senti, Ruzante: se io sapessi che tu mi puoi mantenere - che mi fa a me? - ti vorrei bene, io, intendi? Ma quando penso che sei un poveruomo, io non ti posso vedere. Non che voglia male a te, ma voglio male alla tua disgrazia; ché ti vorrei vedere ricco, io, acciò che stessimo bene, io e te.

 
Come avete visto, in questi due dialoghi del “Ruzante” si parla degli effetti devastanti della povertà, in una campagna di Padova. Il povero Ruzante va alla guerra, allettato dalla promessa di guadagnare qualche soldo, senonché scappa sempre. E’ una citazione di una commedia plautina, il “Miles gloriosus”, il soldato spaccone, che si vanta di avere fatto chissà quali cose, ma in realtà poi è andato sempre fuggendo. E l’amico Menato lo prende in giro, oppure, insomma, in certi momenti gli crede in altri no. Una cosa si capisce: che tu non ha fatto niente altro che darsela a gambe. E quando torna dalla Gnua trova che se la intende con un altro. Perché, gli dice, che cosa pretendevi? Sei tornato così tardi e in questo periodo come facevo a mantenermi? In questa maniera ridanciana il nostro Beolco rappresenta una tragedia di questo tempo, la povertà assoluta, che poi si scatena di più nei momenti di cattivo raccolto, nei momenti di carestia.
Un altro autore che cerca di riportare le esigenze del mondo della campagna, rispetto a una città che vive la grande stagione rinascimentale e dimentica, in questa sua grande messa in scena, i gravi problemi che ci sono nel contado, è Teofilo Folengo, l’autore del “Baldus”, del quale vi leggerò un passo. E’ un’opera in latino maccheronico, nella quale il protagonista, un ragazzotto di campagna, si reca nella città e si scontra con i ragazzi della stessa, che sono più sofisticati. Baldo ha un fisico più robusto e quando vengono alle mani, e spesso lo fanno, perché hanno un modo diverso di pensare, lui ha sempre la meglio. Già in questo, Teofilo Folengo stabilisce una sorta di superiorità della gente di campagna su quella della città, almeno da un punto di vista fisico. Ma quello che lui vuole fare, alla maniera di Rabelais, è rovesciare i punti di riferimento e far capire che in fondo il mondo non si esaurisce nella città, c’è anche un mondo della campagna che può imporre a quello cittadino aspetti nei quali non riesce ad esprimersi, come la robustezza, la salute fisica. Questa è l’introduzione al poema, che, come si diceva, è scritto in latino maccheronico, con una grammatica latina, ma con inserimenti di parole nuove che fanno ridere proprio per la loro eco popolare. Leggo la traduzione dal testo originario…
 
TEOFILO FOLENGO, BALDUS, PROEMIO
Mi è venuta la fantasia - una matta fantasia - di cantare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama altisonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra, e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga addosso.
Ma in prima l'aiuto vostro bisogna chiamare, o Muse che date vita all'arte macaronica. Potrebbe la mia gondola strigarsi dagli scogli di questo mare, se il vostro favore non la raccomandasse? E non mi stiano a soffiare negli orecchi i loro carmi né Melpomene né quella minchiona di Talia né Febo che se ne sta grattando tutto il giorno la sua chitarrina: perché quando penso al budellame della mia pancia, non fa per me, per la mia piva, la chiacchiera del Parnaso. Ma solo le Muse mangione, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala, vengano qui a imboccare il loro caro poeta di gnocchi, e mi diano cinque o anche otto tegame di polenta fumante.

 
Le divinità alle quali si può ispirare un poema epico popolare sono le muse mangione, non quelle che stanno sull’Olimpo. Si imposta il tono scherzoso di un’opera nella quale, ripeto, si vuole stabilire, in un’atmosfera un po’ carnevalesca, l’importanza del mondo popolare,  con l’invito a “tenersi al naturale”, ribaltare l’esperienza artificiosa della città in un bagno di semplicità, che era già la lezione di Francois Rabelais.
Con Folengo e Beolco, un altro autore che si pone fuori della tradizione rinascimentale, Pietro Aretino, che nelle sue commedie, nei suoi interventi culturali, critica l’ambiente della corte come mondo artefatto, falso, assolutamente ipocrita. E con lui ce n’è un altro ancora, Benvenuto Cellini, che nella sua “Vita” racconta una storia di esperienze, possiamo dire, anche straordinarie (addirittura lo si è accusato Cellini di avere inventato molto). Sicuramente è stato un eclettico, un uomo di grandissima personalità, che ha avuto a che fare con diversi regnanti. E’ stato al servizio di papa Clemente Settimo, quando venne ancora giovane da Firenze, dove già si era distinto in alcune violenze, perché era un tipo molto ribelle ma anche brutale e soprattutto istintivo. Ebbene, fu ospite e lavorò presso Clemente Settimo, poi presso Francesco Primo di Francia e infine presso Cosimo de’ Medici. Contemporaneo di quelli che abbiamo presentato prima, vive fino al 1570. La cosa che colpisce di più è la portata dei problemi con la committenza. Si era piccato di essere come Michelangelo nel campo della fusione dei metalli, lui che era un grandissimo orafo, e voleva realizzare monumentali opere, invece che con il marmo, come il Buonarroti, con il bronzo. Ma i regnanti o i papi che lo ospitavano gli affidavano dei compiti molto più modesti, mortificanti. Per esempio papa Clemente appena lo vide gli ordinò di fargli semplicemente un recipiente per gli ossi di pollo che scartava dalla sua divertente cena davanti alla corte pontificia. E Francesco Primo di Francia addirittura gli commissionò una saliera; e lui di quella saliera, che era anche quella una commissione umiliante, fece una grande opera d’arte. La realizzò delle dimensioni più o meno di un braccio, con oro e argento. Anzi il re gli dette come primo incarico la realizzazione di candelabri con una quantità veramente minima di argento, tale che Cellini fu costretto a farli molto sottili; soltanto uno come lui, grandissimo in quest’arte, riusciva a creare qualcosa del genere. Fece un miracolo, insomma, anche con i candelabri, lui che avrebbe voluto fare un’opera immensa, di diversi metri, che riproducesse magari lo stesso Francesco Primo. Resistette a tutte queste umiliazioni e solo alla fine riuscì ad imporsi con il suo gioiello, il “Perseo”, che realizzò com gravi problemi di fusione, che sono raccontati nella sua “Vita” e anche in alcuni sceneggiati e film famosi.
Cellini nella sua vita movimentata è stato anche chiuso in Castel Sant’Angelo. Narra di una fuga pazzesca, delle manie del direttore di questo carcere, che pensava di volare come gli allievi di Leonardo, che si impegna a seguire per approfittare dei momenti di libertà che gli concedeva preparando la fuga. Infatti, come nella più classica e tradizionale delle evasioni,sega le sbarre della cella, annoda le lenzuola e poi si cala, da una finestra alta decine di metri, addirittura si rompe anche una gamba, racconta lui, e così, zoppicando, raggiunge la libertà. E’ una vita piena di movimento, con duelli, con delitti anche. La racconta perché è convinto che il grande artista, il grande protagonista, debba scrivere la vita di se stesso, per disegnare la propria funzione in un’epoca.
Nel frattempo la civiltà rinascimentale ha espresso la sua dimensione e il suo modello, che è stato ben codificato nel trattato sul perfetto cortigiano di Baldassarre Castiglione. E’ contro questo archetipo che si muovono tutti quelli che abbiamo citato prima, perché la persona che vi si presenta è falsa, dovendo manovrare per ottenere i favori della corte. Vediamo che vita si respira in questo ambiente secondo Baldassarre Castiglione. Antonella legge delle serate alla corte di Urbino, nel quarto capitolo del “Cortegiano”:
 
BALDASSARRE CASTIGLIONE, IL LIBRO DEL CORTEGIANO, LIBRO I, CAPITOLO IV
Erano adunque tutte l'ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi cosí del corpo come dell'animo; ma perché il signor Duca continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se n'andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga quell'ora si riduceva; dove ancor sempre si ritrovava la signora Emilia Pia , la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l'oneste facezie s'udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria; né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quello che già di sopra ho detto, a tutti nascea nell'animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo ; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà o amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era.
 
Non c’era maggiore intesa di quella. E dice poi che non fanno niente di sconveniente, anche quando sono lasciati soli con le donne. Insiste su questo aspetto, Baldassarre Castiglione. E ci fa il ritratto del perfetto uomo di corte, che deve sapere tirare d’armi, intrattenere nella conversazione, conoscere latino e greco, essere esperto di pittura e altri campi e anche saper consigliare il principe. Quest’ultima cosa la dice in un altro luogo dell’opera, in cui riscatta questa figura che potrebbe apparire artificiosa, al punto da fingere naturalezza, in quanto deve costruire la sua immagine nella corte non lasciando intendere che l’ha costruita. Per esempio deve ballare perfettamente ma non deve dare idea di contare o guardare i passi che sta facendo durante la danza.
Sempre nell’ambito della società rinascimentale ufficiale, troviamo nel “Galateo” di Giovanni della Casa una dimostrazione chiara della realtà artificiale di questa società…
 
(legge Antonella)
GIOVANNI DELLA CASA, GALATEO OVVERO DE’ COSTUMI, CAPITOLO VII
Ben vestito dee andar ciascuno, secondo sua condizione e secondo sua età, percioché, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente: e perciò solevano i cittadini di Padova prendersi ad onta quando alcun gentiluomo viniziano andava per la loro città in saio, quasi gli fosse aviso di essere in contado. E non solamente vogliono i vestimenti essere di fini panni, ma si dee l'uomo sforzare di ritrarsi più che può al costume degli altri cittadini, e lasciarsi volgere alle usanze; come che forse meno commode o meno leggiadre che le antiche per aventura non erano, o non gli parevano a lui. E se tutta la tua città averà tonduti i capelli, non si vuol portar la zazzera, o, dove gli altri cittadini siano con la barba, tagliarlati tu: percioché questo è un contradire agli altri, la qual cosa (cioè il contradire nel costumar con le persone) non si dee fare, se non in caso di necessità, come noi diremo poco appresso, imperoché questo innanzi ad ogni altro cattivo vezzo ci rende odiosi al più delle persone. Non è adunque da opporsi alle usanze comuni in questi cotali fatti, ma da secondarle mezzanamente…
 

Questo è l’invito di Giovanni della Casa al conformismo, in questa società di maniere, imbellettata, nella quale il modello tende a fissarsi. E nel momento in cui il paradigma si stabilisce si è persa la freschezza e la grandezza anche della crescita della civiltà rinascimentale. Siamo già in una fase involutiva. I grandi personaggi di questo periodo hanno già intuito le premesse del disfacimento di questa cultura, mentre i più modesti, come Giovanni della Casa o Baldassarre Castiglione, vivono il loro momento pensando ancora di essere nel pieno dello sviluppo di una grande civiltà. Invece sono già ai margini della sua dissoluzione e della sua crisi. E con questa rapida conclusione vi salutiamo. 
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Approfondimenti letterari

In questa sezione si trovano i testi (passi antologici) tratti dalle opere più significative della tradizione letteraria italiana e, occasionalmente, straniera, con una sintetica introduzione, note esplicative, una breve interpretazione. 
 
Teofilo Folengo
    Il proemio del Baldus (Baldus, I, 1-63)
    Il ritratto di Cingar (Baldus, IV, 81-129
Baldassarre Castiglione
    Le virtù del perfetto cortigiano (Il cortegiano, I, 25-26)
    Il prologo della Calandria